martedì 9 settembre 2025

BARRAFRANCA. Analisi storica dell’antica tela di MARIA SS della STELLA, compatrona della città

 

Pochi ricordano l’antica tela di Maria SS della Stella, compatrona della città di Barrafranca, trafugata la notte tra il 19 e il 20 giugno del 1977. Rimane qualche santino e i ricordi di chi, come me, ha avuto la fortuna di vederla, per quanto i miei ricordi siano un po' vaghi. Per questo, crescendo, ho iniziato a studiare, ricercare e capire chi, cosa, e perché a Barrafranca esistesse una tela così particolare.

Innanzitutto, partiamo nello spiegare che l’appellativo della “Stella” è uno dei tanti che è attribuito alla Vergine Maria. Con quest’appellativo si mette in evidenza il carattere di guida che assume la Madre di Cristo per gli uomini: Maria diventa la guida che illumina il cammino dei fedeli, la “Stella” che rischiara le tenebre del peccato, colei che guida il cammino di fede lungo il percorso della vita. Nell’antica tradizione araldica la “stella” è stata sempre associata alla Vergine e ne è diventata il suo simbolo: la “stella” simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa.

I dimentichi della storia non ci aiutano a cogliere la verità su questa tela, tanto amata e onorata dal popolo barrese tanto da farne la compatrona della città. Inoltre, le varie trasformazioni subite nell’arco dei secoli, non hanno permesso di valutarne l’effettivo contenuto. Possiamo solo parlare d’ipotesi.

Nell’antica tela la Vergine è rappresentata nell’atto di allattare il piccolo Gesù, nell’atto più umano per una donna: quello di allattare il proprio figlio, nel suo “monstra te esse matrem”, ossia nel suo mostrarsi come “madre”, tipico dell’iconografia della “Madonna del latte” o “Galactotrophousa”. Sono tante le immagini iconografiche che rappresentano la Vergine: tutte fanno capo alle prime immagini di origine orientale, chiamate “Panaghia”, che in greco significa “tutta santa”. Secondo la tradizione, le prime icone della Vergine furino dipinte dall’evangelista Luca, dopo la Pentecoste. Si racconta che san Luca avesse ritratto la Madonna dal vivo. Sarebbero state queste prime icone e definire le tre tipologie principali delle icone mariane.

Tornando a Barrafranca, una particolarità del quadro di Maria Ss. della Stella è la presenza dei due personaggi che le sono raffigurati accanto: la maggior parte degli storici sono concordi nel ritenere che si tratti di sant’Alessandro e di san Giovanni Battista. Alla sinistra della Madonna troviamo rappresentato san Giovanni, vestito di pelli e con il bastone, anzi il pastorale (bastone ricurvo in superficie, simboleggiante la funzione di cura per la fede) in mano. L’immagine rispecchia i canoni tipici dell’iconografia del Santo.

Gli storici hanno ipotizzato che il culto del Santo fosse già presente a Barrafranca prima della venuta di Matteo Barresi e che l’autore abbia voluto richiamarlo nella tela. Si potrebbe ipotizzare che l’ignoto autore abbia voluto porre accanto alla Vergine della Stella san Giovanni Battista, ponendolo a difesa della Vergine.

Controverse sono le opinioni degli storici riguardanti l’altro personaggio presente nella tela. Sul lato destro della Madonna è rappresentata una figura di un giovane vestito con un manto, la mitra sul capo e in atto di benedire: come mostrano le dita alzate della mano destra. Per la maggior parte degli studiosi questa figura è sant’Alessandro, anche se non è mai esistita una certezza. L’idea comune è nata da una vicenda conosciuta come “Guerra dei Santi”. Quando Matteo Barresi III diede al nuovo comune il nome di Barrafranca (1529) nel paese esistevano già due fazioni: una che voleva come patrono del paese sant’Alessandro, mentre l’altra fazione voleva san Giovanni. Con l’arrivo nella nuova municipalità di una moltitudine di gente proveniente da Militello in Val di Catania, si creò una terza fazione che voleva sia sant’Alessandro che Maria della Stella come compatroni. Vinse questa terza fazione.

Così nella tela furono rappresentati sia i due Santi sia la Vergine. Da ciò si è ipotizzato che il quadro fu realizzato proprio in questo periodo (intorno al 1572), risolvendo così il contenzioso. Lo storico Giunta scrive: «Tiene ai lati due altre figure di cui una è S. Giovanni Battista mentre l’altra rimane ignota; adornandola però con mitra e pastorale, ne formarono un S. Alessandro». Il Giunta utilizza queste parole perché nel dizionario del Nicotra si legge che il Santo rappresentava san Luca, anche perché tiene in mano un libro, oggetto molto strano per un papa, tipico di un’iconografia di un santo evangelista. A guardar bene, si nota come l’autore abbia rappresentato una figura giovane, lontana dai canoni iconografici di un papa, con il libro in mano, simbolo più di uno scrittore e non di un papa. Inoltre, stando a quanto scrivono gli storici, la mitra fu aggiunta dopo. Non sappiamo quale sia la verità ma, ormai da secoli, quella figura è considerata sant’Alessandro che, assieme a Maria SS. della Stella, sono patroni della città Se si analizza con precisione la tela (ricordiamo al lettore che stiamo parlando della tela trafugata nel 1977), nonostante le trasformazioni che ha subito negli anni, si nota come, a livello iconografico, le caratteristiche dei Santi si discostano da quelle della Vergine Maria, rappresentata con semplici tratti e colpi di pennello. Ignoto l’autore di un’opera definita da Gaetano Vicari “rozzo dipinto, non si sa se olio o tempera; una tela distesa su un legno, rovinato dai tarli e più volte ritoccato, specialmente nella figura di san Giovanni, e con la figura della Vergine completamente ricoperta da finte vesti di seta”. Effettivamente analizzando le foto che ci rimangono dell’antica tela si nota la semplicità del disegno che, con i successivi ritocchi, non mostra più la sua originaria fattezza. Inoltre, la tela era impreziosita da diversi ex-voto, cuciti nelle vesti della Vergine e nel periodo della festa, la testa del Bambino era ornata da una corona, mentre quella della Madonna da una corona e da Stellario, oggetti tutti in argento.

La maggior parte degli storici sono concordi a sostenere che sia stata dipinta intorno al 1572, periodo in cui il nuovo comune, nato con il nome di Barrafranca, si stava ripopolando grazie alla popolazione proveniente da Militello in Val di Catania, dove già preesisteva il culto di Maria della Stella. Non c’è nessuna certezza che sia stato questo il periodo, tenuto conto che qualche storico ipotizza che il culto sia preesistente prima dell’arrivo dei militellesi.

Quello che di certo posso affermare che, in alcuni documenti conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Catania da me consultati, la prima traccia di una tela di Maria SS della Stella con bambino e due corone in argento una per la madre e l’altra per il figlio di ritrova in un inventario del 28 novembre 1697, e riconfermato negli inventari successivi,  riguardante la chiesa di San Alessandro (così in alcuni documenti ufficiali viene nominata la chiesa Maria SS della Stella) redatto durante una visita pastorale del vescovo di Catania Mons. Andrea Riggio (allora Barrafranca era diocesi di Catania). Non abbiamo la certezza che quello sia la tela trafugata nel 1977, ma dalle analisi sopra redatte, possiamo affermare che, verosimilmente, sia la stessa. Spulciando tra quelle carte, è emerso che in un atto del 1738 il governatore della chiesa Maria SS della Stella chiede al vescovo di Catania di poter portare in processione il 15 settembre (ai tempi era quella la data della festività) la “statua” (?) di Maria SS della Stella con gli onori che le competono. Lo storico Sac. Luigi Giunta parla di un documento dell’Arch. Parrocchiale datato 2 ottobre 1699 attesta che la chiesa aveva subito danni nel terremoto del 1693 e “l’immagine di rilievo” di Maria SS della Stella fu portata in riparo nella vicina Chiesa Madre (non più esistente”. Che questa sia la statua citata nell’atto del 1738 portata in processione (altra scoperta da vagliare).

Tante sono le ipotesi o meglio le leggende intorno all’ignoto autore. Secondo una di queste, un giorno in paese arrivò un pittore ambulante in cerca di lavoro. Avendo fame, iniziò a girare per le strade del paese, chiedendo a ogni persona che incontrava, se volessero dipinto un ritratto o un quadro, ma tutti lo respingevano. Allora stanco e avvilito, si sedette su una “ticchiena” (panchina in pietra posizionata davanti all’ingresso di una casa) vicino a una donna che accudiva alle sue galline. Il pittore chiese alla donna se volesse un quadro, al che la donna gli espresse il desiderio di un grande quadro della Madonna della Stella, ma non aveva soldi per pagarlo. Il pittore chiese solo vitto e alloggio, pur di vivere. Così gli fu data una stanzetta, dove dormire e un lenzuolo per la pittura. Da quel giorno non uscì più da quella stanza. Per tre giorni la donna lasciava dietro la porta un piatto di pasta e un bicchiere di vino, ma non otteneva risposta. Al terzo giorno decise di entrare e vedere cosa succedesse. Con immenso stupore vide sul tavolo le pietanze dei giorni precedenti ancora intatte e fumanti, il pittore era scomparso e in fondo alla parete vide l’enorme tela, su cui capeggiava la Vergine Maria, con ai lati le figure di due santi, che la donna riconobbe come sant’Alessandro e san Giovanni Battista e nel volto di sant’Alessandro, la donna rivide il volto del pittore.

Questa leggenda era molto conosciuta in paese, con le seguenti varianti: secondo alcuni i pittori “Santi” erano due, ossia sant’Alessandro e san Giovanni, in altre versioni, come quella citata da Giuseppe Salamone nel suo diario secondo altri il quadro fu dipinto in una “pagghialora” (stalla) proprio vicino alla chiesa, dove gli anziani raccontano che fino agli anni ’50 si poteva ancora vedere sul muro un affresco o un bassorilievo uguale al quadro della Madonna. Altra versione raccontata dagli anziani narra che la tela fu portata, trovandosi di passaggio a Barrafranca, da un pescatore di Gela che l'avrebbe trovata, arrotolata e sporca, lungo la spiaggia. Durante il suo tragitto, la notte lo colse a Barrafranca e dovette cercare rifugio in un “funnacu” (fondaco, ossia edificio adibito sia a magazzino che ad alloggio per gli stranieri) nei pressi dell’odierna via Lanza. Alcuni barresi curiosi, scoperta la tela, se ne impadronirono portandola e lasciandola nella chiesa di sant'Alessandro (così chiamata l'attuale chiesa Maria SS. della Stella). La fantasia popolare ha attribuito, a queste due leggende, un velo di verità tanto da spingere l’estro popolare a comporre una canzone in vernacolo barrese, in onore della Madonna.

Qui riportiamo il testo a noi pervenuto: Nascì di l’Oriente sta Stidda mattutina, rrivanu a Barrafranca sì movi d’un caminu. Oh, Dio l’afflitto sole di l’acqua sconquassata prega l’eterno Padre per farla pitturare. A mminzu di dui pitturi si lassa traspurtari e ncasa di na vecchia si cridi ch’a da ristari. Oh, vecchia furtunata ch’aviti a ssà rigina di l’angiuli calata sta Stidda mattutina”. (Nasce dall’Oriente questa Stella mattutina arrivando a Barrafranca non muove più il suo cammino. Oh, Dio il sole è afflitto dall’acqua scatenata prega l’eterno Padre per farla pitturare. In mezzo a due pittori si fa trasportare e a casa di una vecchia crede di dover restare. Oh, vecchia fortunata che avete questa regina dagli angeli discesa questa Stella mattutina.).

Tante leggende, tante tradizioni popolari dal fascino antico che, ancora oggi, lasciano aperte mille domande. RITA BEVILACQUA

 FONTI CARTACEE: Alfonso Carfora, Lotta iconoclastica e l’arrivo delle icone in Italia; diffusione della Madonna di Costantinopoli, Pontificia Università Lateranense-Facoltà di Teologia, Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater”, anno accademico 2008-2009; Archivio Storico della Diocesi di Catania; Salamone Giuseppe, Quaderno di Giuseppe Salamone di Barrafranca, Codice o Catechismo Regolamento famigliare Salomoniesco, Penitenziario di Volterra, parte riguardante la protettrice ed il protettore del Comune di Barrafranca; Francesco Nicotra, Dizionario illustrato dei comuni siciliani, Palermo, 1907; Sac. Luigi Giunta, Brevi cenni storici su Barrafranca, Tipografia Ospizio Provinciale di Beneficenza, Caltanissetta, 1928; Angelo Li gotti, La penetrazione cristiana nella zona di Barrafranca, Piazza, Pietraperzia, Mazzarino, secondo le recenti scoperte, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo, 1965; Angelo Scarpulla, C’era una volta e c’è ancora Barrafranca, Rimini, 2001; Liborio Centonze, Navigando i fiumi, vol. I, Edizioni NovaGraf, 2013; Gaetano Vicari, Guida alle principali chiese di Barrafranca, seconda edizione, 2019. 


giovedì 14 agosto 2025

BARRAFRANCA. Storia di una festa non più esistente: la Buona Morte

 


Tra i meandri della memoria abbiamo riportato alla luce i ricordi di una festa che pochi conoscono ma che ha un non so ché di arcano. Stiamo parlando della festa della Madonna della “BUONA MORTE” che si festeggiava a Barrafranca fino all’agosto del 1950 nella Chiesa Itria, la quale custodiva una statua della BUONA MORTE appunto.

Il titolo “Maria della Buona Morte” non è un titolo ufficiale che la Chiesa cattolica ha attribuito alla Vergine Maria. Questa riconosce il concetto di “buona morte” (in latino: “mors bona”) come pratica cristiana delle confraternite della Buona Morte, che si occupavano di assistere i moribondi e di fornire una degna sepoltura ai defunti indigenti. Queste confraternite, diffuse in Italia fin dal Medioevo, avevano lo scopo di assistere i condannati a morte, di seppellire i poveri e di accompagnare spiritualmente i moribondi. L’associazione del concetto di “buona morte” a Maria è data dal fatto che la Vergine spesso è invocata come protettrice dei moribondi. Inoltre, questo culto è connesso a quello più conosciuto della “Dormitio Virginis”, che trae origini nella tradizione orientale, dove si crede che Maria non sia morta, ma sia caduta in un sonno profondo prima della sua Assunzione in cielo. 

Tornando a Barrafranca, la BUONA MORTE era una statua in cera che raffigurava, secondo l’iconografia classica, la Vergine giacente su un letto, Maria dormiente appunto, vestita con abiti pregiati, dentro ad una teca lignea con ante in vetro. La teca era posizionata su un altare appoggiato sul muro di destra della navata principale della Chiesa Itria e circondato da un arco in gesso.

Il culto della Madonna della Buona Morte era molto sentito dai fedeli barresi. Difatti, la festa liturgica si svolgeva il 15 agosto ed era anticipata dalla pratica cristiana conosciuta come “Quindicina”, ossia i 15 giorni in cui i fedeli si ritrovano nel tardo pomeriggio ad assistere alla messa in onore della Vergine, preceduta dalla recita del rosario. Come ci racconta le sorelle barresi Stella (93 anni) e Clara (84 anni) Faraci, l’organizzazione dei festeggiamenti era curato dalla nonna materna di queste, la signora Teresa Faraci (classe 1866). La signora Teresa aveva realizzato a mano una pregiata tovaglia che serviva a ricoprire l’altare durante i festeggiamenti. Inoltre, questo veniva addobbato con dei “rametti” ossia dei rami di fiori di carta realizzati a mano. In quegli anni in paese era costume realizzare a mano dei fiori con carta velina che poi venivano venduti, per pochi soldi, alla gente.



Questo perché dilagava la povertà e l’acquisto di fiori freschi era molto oneroso. Era una vera e propria arte: si tagliavano i petali nelle forme e varietà del fiore che si doveva realizzare. Poi si scioglieva la cera di una candela e con questa si incollavano le parti e si legavano alla parte terminale del gambo, fatto di fil di ferro, rivestito di carta velina verde. C’è chi realizzava i fiori con vecchie calze di nylon. Tornando ai festeggiamenti, questi duravano quindici giorni, per concludersi con le celebrazioni eucaristiche del 15 agosto. Durante questi giorni, molti devoti portavano, come ex voto, oggetti in oro che venivano posizionati sopra l’altare, vicino alla teca che veniva aperta durante la festa. Al termine dei festeggiamenti, gli ori votivi venivano conservati dal parroco Don Calogero Guerreri (parroco Chiesa Itria 1947-1969), mentre i rametti e la tovaglia dalla signora Teresa Faraci, pronti per l’anno prossimo.

La festa scomparve con la distruzione della statua. La notte del 15 agosto 1950, dopo i festeggiamenti, si sviluppò un incendio, causato da una candela lasciata accesa, che fece sciogliere la statua in cera e ridusse in cenere l’urna lignea che la conteneva. Invece di ripristinare ciò che era rimasto dell’altare, il parroco Guerreri decise di smontare tutto, grazie all’aiuto dello stimato falegname barrese Giovanni Faraci (1894) e del figlio Luigi (1937). A ricordo di ciò rimangono due santini raffiguranti l’Assunzione della B.V. “Dormiente”.


Mesi dopo l’increscioso evento, il 1° novembre 1950 Papa Pio XII emanava la costituzione apostolica “Munificentissums Deus” con la quale fu proclamato il dogma dell’Assunzione di Maria. Il culto della Dormizione ha contribuito alla formulazione del dogma dell’Assunzione di Maria. Maria, «essendo giunta al termine della propria vita terrena, fu elevata in corpo e anima alla gloria del Cielo ed esaltata dal Signore come Regina dell’universo, per essere così del tutto conforme al Figlio, Signore dei Signori, vittorioso sul peccato e sulla morte».

La formulazione del nuovo dogma spinse don Guerreri a far costruire un nuovo altare dove posizionare una statua dell’Assunta, chiudendo la porta laterale destra della chiesa e scavare nella parete una nicchia per contenere la nuova statua. I lavori furono completati nel 1957 come si evince dalla lapide posta a sinistra dell’altare.

Non più la Madonna della Buona Morte o della Dormizione, ma la Vergine Assunta. Cambia anche l’iconografia: non più la “Dormitio Virginis” ma la vergine attorniata dagli angeli che viene elevata al cielo.

CURIOSITA’ La “quindicina” è una pratica cristiana, un momento di riflessione sul senso della festa e di preparazione alla festa stessa. Questa pratica, che può variare di numero dai tre giorni “Triduo”, ai nove giorni “Novena”, ai quindici giorni “Quindicina”, si ispira a quanto attestato negli “Atti degli Apostoli” sulla preghiera vissuta dalla prima comunità degli Apostoli dopo “l’Ascensione di Gesù”, in attesa della “Discesa dello Spirito Santo”.

Ringrazio le sorelle Stella e Clara Faraci, e il nipote Gianni Faraci per la fattiva collaborazione e le preziose informazioni.

FONTI SCRITTE: La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 1993, nota ad At 1,14; Pino Giuliana, La Chiesa di Piazza armerina nel Novecento”, Edizione Lussografica, 2010; Gaetano Vicari, Guide alle principali chiese di Barrafranca, 2 edizione; Iole Virone, Lontano dal cuore, 2025. FONTI ORALI: Stella Faraci classe 1932; Clara Faraci classe 1941. SITOGRAFIA: https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/apost_constitutions/documents/hf_p-xii_apc_19501101_munificentissimus-deus.html. FONTI FOTOGRAFICHE: Rita Bevilacqua; Gianni Faraci. RITA BEVILACQUA








martedì 3 settembre 2024

Storia dell’ex CHIESA DEL PURGATORIO di Barrafranca, con documenti inediti

 

Bozza dell'ex chiesa del Purgatorio

C’era una volta… e adesso non c’è più. Così inizia la nostra storia, la storia dell’antica chiesa di un assolato paese dell’entroterra siciliano chiamato Barrafranca (EN).

La storia che stiamo per raccontare riguarda la chiesa del Purgatorio sotto il titolo di Maria SS della Concezione. Fino agli anni '50 a Barrafranca in piazza Madonna, accanto ai "Putieddi" (strutture tardo-medievale) e vicino alla chiesa Maria SS. della Stella, esisteva una chiesa molto antica che, dagli studi condotti dallo storico dott. Angelo Ligotti e da quelli recenti del prof. Liborio Centonze, si fa risalire al periodo bizantino (durante i lavori di abbattimento furono ritrovati due monete bizantine, una moneta normanna di Guglielmo II e altro). Si tratta della chiesa del Purgatorio, conosciuta come "U Priatoriu".  Secondo il sacerdote Luigi Giunta era un fabbricato del principe Branciforti dato che, in questa chiesa, si conservava un suo stemma. Secondo lo storico Angelo Scarpulla non è da escludere che, originariamente, la chiesa fosse stata costruita sulle rovine di un preesistente tempio. Durante lo sviluppo del Cristianesimo, era normale sostituirsi a ciò che già esisteva, per cui molte chiese cristiane furono costruite sui ruderi di templi pagani. Sempre secondo Scarpulla ciò sarebbe dimostrato dal fatto che la suddetta chiesa, come altre chiese, è rivolta verso "occidente", fatto strano per una chiesa cristiana la cui costruzione veniva orientata verso "oriente" (questo sistema si afferma già a partire dal VII secolo). In tempi antichi, quando Barrafranca era ancora un piccolo borgo dallo strano nome “Convicino”, fu dedicata dalla fine del 1500 in poi a san Lio,  come si evince da diversi Atti notarili di Barrafranca, conservati nell’Archivio di Stato di Caltanissetta.

Nel “Martirologio romano” non esiste nessun San Lio. Il nome Lio trae le sue origini dal greco antico Leôn, che significa "leone" e per questo, in lingua veneta, san Lio è l’appellativo con cui si indica San Leone IX (1002- 1054), il cui culto è molto sentito a Venezia. Questo avvalora la tesi del Ligotti prima e del Centonze dopo, che la chiesa risalga al periodo bizantino (395-1453) e la discesa delle popolazioni del Nord-Italia portò il culto di San Lio (esiste una chiesa intitolata a San Lio a Venezia).

Attuali locali dell'ex chiesa (foto google maps)

Nei registri ecclesiastici di Barrafranca e in particolare nei registri riguardanti gli atti di morte del 1625, “il 20 marzo viene sepolto nella Chiesa Madonna della Concezione un certo Cristofolo di anni 50, morto a casa propria, confessato e viaticato”.  Nei registri di morte a partire dal 1770 si parta di sepolti nella chiesa del Purgatorio. Questo sta ad indicare che nella suddetta chiesa non venivano sepolti solo morti di morte violenta, come da sempre si è creduto.

In due inventari, uno datato 31 luglio 1789 redatto da Sac. Ignazio Grillo e l’altro datato 1808 redatto dal sac. Andrea Vasapolli e conservati nell’Archivio Storico della Diocesi di Catania, la chiesa è appellata del Purgatorio sotto il titolo di Maria SS della Concezione. Difatti vi erano presenti due piccole tele: una delle Anime Santissime del Purgatorio e una di Maria SS della Concezione. Dai barresi era anche chiamata la “Chiesa di l’armi santi”. Per il cattolicesimo le “anime sante” erano le anime del purgatorio, da qui l’associazione di purgatorio con anime sante. In alcuni schizzi realizzati sulla base della memoria storica di chi ha avuto modo di frequentare la chiesa, si evince che la chiesa e il campanile erano annessi a un cotile-giardino, ancora esistente, che dava sulla sagrestia. La struttura del campanile era molto simile a quello della vicina chiesa Maria SS. della Stella, con la differenza che la cupola del campanile della chiesa del Purgatorio aveva una forma piramidale.

Vicolo Purgatorio

La chiesa era separata dalle "Putieddi" dalla via Purgatorio che collegava piazza Madonna al corso Garibaldi. Parte della strada fu chiusa quando fu demolita la chiesa e creati i nuovi locali, lasciando il vicolo Purgatorio, al quale si accede dal corso Garibaldi. Entrando nel suddetto vicolo, in fondo si può ammirare ancora l'antica abside della chiesa, mentre all’interno l’abside su trasforma in una piccola cappella e la navata centrale è diventata l’attuale salone. 
Abside dell'ex chiesa ancora visibile

Come si evince dall’inventario del 1789, La chiesa era ad una sola navata e all’interno vi erano 6 altari: altare Maggiore, altare del SS Crocifisso di Maria; altare del SS Rosario; altare di san Gaetano; altare di San Isidoro e altare di San Eligio. Inoltre, vi era un organo ligneo e il campanile era dotato di 2 campane, una più grande e una più piccola. Molti degli arredi sono stati perduti, mentre alcuni furono portati nella vicina Chiesa Maria SS della Stella, come l’antica tela rappresentante sant'Isidoro Agricola di Pietro d'Asaro, detto il monocolo (era cieco di un occhio) di Racalmuto (1597-1647), mentre fino al 2011 trovava posto anche l’antica tela di San Eligio Vescovo. Sempre nella suddetta chiesa troviamo alcuni altari lignei e l’antica acquasantiera in pietra, installata negli anni ’90, dopo che era rimasta conservata nel cortile dell’oratorio.Una delle campane fu installata nel campanile della cappella Cuore Immacolato di Maria, conosciuta come chiesetta di San Giovanni (sita nell’omonima contrada), l’altra rimase nei sotterranei della chiesa Maria SS della Stella. Quando la cappella del Cuore Immacolato di Maria fu chiusa, la campana fu smontata e conservata, assieme all’altra, nei sotterranei della hiesa. Nel 2021 entrambe le campane sono state montate nel campanile della chiesa Maria SS della Stella.
Cappella dell'abside interno

Era presente un antico simulacro ligneo dell’Immacolata Concezione, di mirabile fattura, che dopo la demolizione della chiesa passò nella chiesa Maria SS. della Stella. Anni dopo l’antico Simulacro fu portato da don Pino Giuliana a Riesi (CL) nella chiesa di S. Salvatore. Tanta era la devozione all’Immacolata, che fino agli anni’50, esisteva la Confraternita dell’Immacolata. Essa si sciolse, come avvenne per tante altre Confraternite barresi, dopo la condanna di papa Pio XII ai comunisti. Negli archivi parrocchiali del 1777 risulta che vi era la “Confraternita delle Anime del Purgatorio”, la quale aveva il costume di fare delle processioni esterne con il SS Sacramento gli ultimi giorni di Carnevale.

Nei tempi antichi fu ufficiata dai Conventuali di san Francesco. Tra questa chiesa e quella dei Minori Riformati sita in Piazza Regina Margherita, sorse una questione su quale delle due dovesse celebrare la festa dell'Immacolata nel giorno dell'8 dicembre. La questione portata davanti al governo fu decisa in favore della chiesa del Purgatorio con ministeriale dell'11 aprile 1836. 

Durante i bombardamenti del 18 luglio 1943 una bomba, caduta tra la via Bellini angolo Corso Garibaldi, colpisce il tetto della chiesa danneggiandolo. Dai racconti orali apprendiamo che, a causa questo increscioso evento, Monsignor Antonino Catarella, vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, decise di chiudere la chiesa. Dopo anni di chiusura e in barba alla sua veneranda età e ai lustri che aveva dato a “Convicino” prima e a “Barrafranca” dopo, si decise di distruggerla. Erano gli anni ’50 e l’idea di creare dei locali utilizzabili dalla vicina chiesa Maria SS della Stella balenò nella mente dell’allora parroco Don Giovanni Faraci. L’anno 1957 decretò la fine della chiesa del Purgatorio. Nacquero gli attuali locati adibiti, dal marzo 1968, ad ospitare l’oratorio “Casa del Fanciullo”, fortemente voluto da Don Giuseppe Zafarana, il quale si prodigò anche ad aprire una scuola materna parrocchiale. Per alcuni anni furono utilizzati come "Centro per gli anziani" e dal 2000 al 2016 ospitarono le suore Clarisse Apostoliche Domenicane. Attualmente ospita il parroco della vicina chiesa Maria SS della Stella.

FONTI: Archivio di Stato di Caltanissetta; Archivio Storico della Diocesi di Catania; Registri ecclesiastici Barrafranca- Diocesi di Piazza Armerina. TESTI: Sac. Luigi Giunta, Brevi cenni storici su Barrafranca, Tipografia Ospizio Provinciale di Beneficenza, Caltanissetta, 1928; Angelo Li gotti, La penetrazione cristiana nella zona di Barrafranca, Piazza, Pietraperzia, Mazzarino, secondo le recenti scoperte, Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo, 1965; Angelo Scarpulla, C’era una volta e c’è ancora Barrafranca, Rimini, 2001; Liborio Centonze, Navigando i fiumi, vol. I, Edizioni NovaGraf, 2013. Gaetano Vicari, Guida alle principali chiese di Barrafranca, seconda edizione, 2019; FONTI ORALI.  (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

martedì 16 luglio 2024

Uomini del passato: Peppino Seggio e l’amore per la musica

 

Nella metà degli anni Cinquanta, Barrafranca (EN) vide protagonista un uomo singolare che, con il suo umorismo leggero e il suo canticchiare scanzonato, lasciò un ricordo indelebile tra quelli che l’hanno conosciuto.


Stiamo parlando di Giuseppe Seggio, meglio conosciuto come Pippinu Siggiu. Secondo di sei figli, Giuseppe nasce il 14 luglio 1896 in una famiglia poverissima. Il padre Pasquale, figlio di Giuseppe e Giuseppina Barbuzza nato a Barrafranca il 28 agosto 1856, sposa il 03 aprile del 1894 Laura Farruggia di Rocco e Felicita Grillo, nata a Barrafranca il 21 aprile 1866.  Dalla loro unione nascono: Giuseppa (1894), Giuseppe (Peppino), Felicita Maria Stella (1898), Rocco (1902), Carmela (1905) e Maristella (1908).

Per sfamare una famiglia così numerosa, Pasquale si adattava a qualsiasi mestiere (negli archivi comunali alla voce “mestiere” troviamo “industrioso”), Laura fa la casalinga. Come tantissime famiglie di allora, non hanno la possibilità di far studiare i figli. Così Giuseppe che, fin da bambino aveva la passione per la musica, dovette rassegnarsi e limitarsi a canticchiava valzer, mazurche e altro con testi e musiche proprie che sapevano di una sola personale tonalità. Si dilettava anche a scrivere poesie e versetti. Per vivere Giuseppe faceva il muratore. Trascorse buona parte della sua vita in una casetta, assieme alla sorella Maria Stella, in via Ciulla incrocio via Paterno Rossi.

Negli anni Quaranta arriva a Barrafranca il maestro leonfortese Paolo Marinacci, amico del dott. Angelo Ligotti, al quale fu chiesto di comporre degli spartiti per la banda cittadina. In questo frangente i dot. Ligotti chiede all’amimico di musicare una marcia funebre che Peppino Seggio canticchiava. Quello starno canticchiare fu trasformato in una marcia funebre dal titolo che "Padre Pietoso". Da subito bbe un gran successo, tanto che ancora oggi viene suonata il pomeriggio del Venerdì Santo davanti al Sagrato della chiesa Madre durante la preparazione del Crocifisso.


Spesso il dott. Angelo Ligotti lo faceva esibire o nel suo studio medico o nel bar della zi Santina Gueli in Piazza Itria. In una delle foto più conosciute si vede Peppino sopra una sedia e, con in mano una bacchetta, dirigere un’orchestra fantasma. Accanto a lui un cagnolino, il suo fedele compagno. Dello stesso autore celebri furono  anche "Il valzer di Monte Navone", "Cirumbelli - polka", "La Mazurca di Caceci" ed altri, ideati dal Marinacci ed attribuiti al Seggio. Celebre e storica la frase che era solito ripetere: "Amara quella porta che ha bisogna del pontillo”.

Muore il 18 luglio 1971. Al suo funerale, la banda musicale del paese gli rese omaggio suonando, gratuitamente, diverse marce funebri, tra cui la sua amata “Padre Pietoso”. 

Riportiamo un ricordo del prof. Carmelo Orofino: “Sbucando dallo stradone, giungeva alla piazzetta del bar Centrale con la sua aria timida e sognante, accentuata dalla lunga sciarpa intorno al collo e dal vecchio cappotto che portava fino ad aprile inoltrato. Camminava mogio mogio, come pestasse le uova, e al suo fianco trotterellava il cane Autore. Non appena sedeva, qualcuno incominciava: «Maestro, ci faccia sentire qualcosa». L’anziano compositore si guardava attorno con gli occhietti spiritati e incominciava, agitando nell’aria la manina ossuta: «Po' po’ po' poropopò...» «Che cos’è, maestro?» «Una marcia funebre, l’ho composta stanotte.» Bisogna dire che il maestro componeva molto: canzoni, marce, opere e tutto con la bocca. Tutti lo incoraggiavano e tutti gli dicevano che il successo non sarebbe tardato. Una sera lo fecero salire su una sedia, gli misero in mano una bacchetta e gli fecero dirigere la musica diffusa da una radio a transistor. Molti canticchiavano le sue canzonette strampalate ed in particolare la Ballata delle pulci.”

FONTI: Archivio di Stato di Enna. Località Barrafranca; Registri ecclesiastici, Chiesa Maria SS. Della Purificazione di Barrafranca- Diocesi di Piazza Armerina. TESTI: Franco Balsamo, Barrafranca. Vita fatti e personaggi del ventesimo secolo, Caltanissetta, 2 edizione, lito-tipografia Bartolozzi Caltanissetta, 1992; “Il maestro compositore di Carmelo Orofino”, articolo pubblicato nel Giornale “Orizzonti” di Piazza Armerina (EN) 1997. FONTI ORALI: intervista Giuseppina e Maria Stella Bartoli, nipoti del compianto Seggio; intervissta a Salvatore Rizzo, Maestro della Banda Musicale Città di Barrafranca; FOTO: Archivio Cateno Marotta. (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA



martedì 4 giugno 2024

STORIE DI UOMINI- Chi era il maresciallo Salvatore Troja, ucciso a Barrafranca (EN) il 13 febbraio 1956


Uno dei doveri della società civile è ricordare gli uomini dal grande spessore morale che, per sfortunate vicende, hanno perso la vita. È in quest’ottica che oggi vogliamo far conoscere il maresciallo Salvatore Troja, ucciso a Barrafranca (EN) il 13 febbraio 1956, attraverso la sua figura di uomo e di ufficiale.

Il 13 gennaio 1908 nasce a Ramacca (CT) Salvatore TROJA, di Tommaso e di Giuseppina Sanfilippo,

Il 30 aprile 1926 si arruola nell’Arma dei Carabinieri.

Il 15 ottobre 1926, dopo il corso, vieni promosso Carabinieri a piedi.

Dal 1926 al 1929 svolge servizio come C.re ausiliario presso la legione di Palermo.

Il 29 settembre 1929 a Scordia (CT) sposa Lucia Scirè, di Rocco, classe 1908.

Il 01 maggio 1929 viene posto in concedo illimitato.

Il 27 settembre 1930 nasce a Scordia la primogenita Giuseppa, deceduta il 5 settembre1931.

Il 28 novembre1933 nasce a Catania la figlia Giuseppa Anna Maria.

Il 07 settembre1937 nasce a Scordia la figlia Fortunata Antonina Angela

Il 06 marzo 1940 nasce a Scordia la figlia Amalia.    

Il 04 giugno 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, viene richiamato alle armi.

Il 31 marzo 1940 viene promosso Vice Brigadiere dei Carabinieri

Il 18 novembre 1941 è mobilitato col 13° Battaglione CC.NN “Bologna”.

Il 01 gennaio 1943 viene catturato dai tedeschi.

Dopo l’armistizio di Cassabile dell’8 settembre 1943 non aderisce alla RSI e unitamente ad altri militari si disperde in Albania.

L’08 settembre 1944 viene fatto prigioniero di guerra in Albania.

Il 14 aprile 1945 riparte da Tirana e giunge a Bari dove viene ricoverato all’Ospedale militare di Valenzano per malaria.

Il 19 aprile 1946 riprende, con il grado di Brigadiere servizio a Messina.

Nel 1947, grazie ad una delicata operazione, il Troja riceve un encomio solenne concesso dal Comando Legione Messina con la seguente motivazione: “Sottoufficiale in sottordine-dando prova di alto senso del dovere, energia e zelo, coadiuvò efficacemente il proprio comandante di compagnia in laboriose indagini che si conclusero con l’arresto di sette persone associate per delinquere e responsabile di rilevanti furti, e con il recupero di gran parte della refurtiva per un valore di circa duemila lire. Nel corso delle indagini richiamato dalla detonazione di una pistola sparato dal collega impegnato in una colluttazione con pericoloso delinquente che stava per essere sopraffatto e disarmato, affronta decisamente il ribelle stordendolo con un colpo di calcio della pistola di ordinanza permettendo in tal modo l’arresto. Floridia- Avola 1947”.

Il 30 giugno 1949 promosso Maresciallo Ordinario.

Il 30 giugno 1951 promosso Maresciallo Capo.

Il 18 settembre 1952 è nominato Comandante della stazione dei carabinieri di Barrafranca (EN) che allora era sita in via Santa Rita, dietro l’attuale palazzo Comunale. Difatti una parte del palazzo comunale (dove attualmente c’è il gabinetto del sindaco) era la stazione del comando dei Carabinieri e i locali attigui, erano le carceri.

Il 13 febbraio 1956 viene ferito gravemente, assieme alla figlia Amelia, in un agguato davanti casa. La ragazza muore sul colpo. Il maresciallo viene trasportato all’Ospedale di Caltanissetta, dove muore il 14 febbraio.

Dopo i funerali le salme vengono trasferite e tumulate al cimitero di Scordia (CT), dove attualmente riposano.

FONTI: documentazione in possesso del maresciallo in pensione Salvatore Sessa, nipote del compianto Troja; ricerche storiche del maresciallo in pensione Vincenzo Pace di Barrafranca (EN; ricerche storiche di Carmelo Gambera incaricato per la memoria del presidio Libera di Scordia; articoli del quotidiano “La Sicilia” anno 1956.  (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA




giovedì 13 luglio 2023

L’antica pratica devozionale di pregare rivolti verso oriente

Foto del web

Alcune ricerche condotte a Barrafranca (EN) sulle pratiche devozionali dedicate a san Giuseppe e a sant’Alessandro, spesso mi sono imbattuta nella pratica religiosa di pregare inginocchiati e rivolti con il viso verso l’oriente. E non solo. Alcuni anziani ricordano che durante il lavoro dei campi, al rintocco delle campane all’ora terza, sesta, nona, era costume fermarsi, inginocchiarsi con il viso rivolto verso oriente e si recitavano le preghiere. Da qui la domanda: da dove deriva quest’antica pratica?

La preghiera è una delle pratiche religiose più diffuse. Non c’è stato e non c’è credo religioso che non pratichi l’atto di rivolgersi con parole al divino, in un costante rapporto con la divinità. Il più antico modo di pregare era quello di rivolgersi verso oriente.

Come afferma il liturgista Mons. Klaus Gamber nell’orientamento della preghiera liturgia, saggio apparso sul periodico “Notizie n° 116”, l'usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, comune a ebrei e gentili. I cristiani l'adottarono ben presto. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum Tertulliano scrive: “…è noto che noi si prega rivolti dalla parte d'oriente.” ((cap. XVI). Inoltre, si premura di rammentare preliminarmente la base scritturistica anche per le tre ore «canoniche» (terza, sesta e nona). Il cristiano è chiamato a iniziare e concludere le sue giornate con l'orazione, rispettando i due momenti, alba e tramonto, che Tertulliano considera di rito. Allora nelle case si indicava la direzione della preghiera a mezzo di una croce incisa nel muro. Una croce del genere è stata ritrovata a Ercolano in una camera al primo piano di una casa sepolta dall'eruzione del Vesuvio nell'anno 79. Anche Clemente Alessandrino nel VII libro dei “Stromata” parla dell’orientamento del pregante. Egli scrive: «Comunque, poiché l’oriente è immagine del giorno natale e da qual punto si diffonde la luce ‘che dalle tenebre risplendé’ la prima volta, e anche per quelli che si avvoltolando nell’ignoranza spuntò il giorno della vera ‘gnosi’, come il sole, le preghiere si facciano rivolti verso oriente all’aurora» (“Stromata” VII.7.43.6).

Nel 2008 la pubblicazione del libro “Rivolti al Signore” del sacerdote Uwe Michael Lang, riporta l’attenzione sull’importanza dell’orientamento della preghiera nella liturgia. Il libro è la traduzione dell’originale scritto da padre Lang prima in tedesco e poi in inglese, nel 2004, e contiene la prefazione dell’allora Cardinale Ratzinger, diventato Papa Benedetto XVI.

“Non vi è dubbio che, fin da tempi molto antichi, fosse naturale per i cristiani di tutto il mondo conosciuto volgersi in preghiera verso il sole nascente, ovvero verso l’est geografico. Sia nella preghiera in privato che nella preghiera liturgica i cristiani si voltavano non più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste; credevano fermamente che, quando il Signore fosse tornato nella gloria per giudicare il mondo, avrebbe radunato i suoi eletti per formare questa città celeste. Il sole nascente era considerato l’espressione appropriata di questa speranza escatologica” (Rivolti al Signore, cit., p.31).

C’è sempre qualcosa di arcano nell’antiche pratiche devozionali, scomparse ormai da decenni, e che rimangono nella mente degli anziani, il cui richiamano alle pratiche degli albori della religione è palese.

FONTI: "Notizie" periodico dell'associazione italiana Una Voce, edito dalla Sezione di Torino n° 116, 1987; Tertulliano, “Apologeticum”, introduzione e traduzione a cura di Onorato Tescari, 1951; Clemente Alessandrino, “Gli Stromati note di vera filosofia”, Edizioni paoline, 2006; Uwe Michael Lang, “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”, Cantagalli 2008; FONTI ORALI. Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA 


martedì 21 marzo 2023

"Luni santu, Marti santu…" l’antica orazione-scongiuro dei ciarmavermi siciliani.


"Ciarmavermi" (foto web)

Nel variegato panorama delle orazioni e degli scongiuri recitati dai "ciarmavermi siciliani" (tagliatore dei vermi intestinali), il più conosciuto è quello che l’antropologo siciliano Giuseppe Pitrè chiama "Scongiuro della Settimana Santa". Nel saggio "Medicina popolare siciliana" Pitrè definisce la credenza e la pratica del taglio dei vermi "verminazione" e le persone che la praticano sono chiamati "ciarmavermi”, termine che deriva da "ciarmare" ossia "affascinare, ammaliare”, individuando così l’azione di curare il male.

Nella cultura popolare contadina quando un bimbo aveva prurito nella zona anale o piangeva sempre o soffriva di mal di pancia, le mamme di una volta dicevano "Ha il verme nella pancia". La frase stava ad indicare, in modo figurato, che il dolore provato dal bambino traeva origine da parassiti intestinali, chiamati in medicina “ossiuri”. Sono dei parassiti di forma affusolata e di colore bianco/avorio diffusi soprattutto tra i più piccoli. Il primo sintomo è quello del prurito nella zona anale, associato al mal di pancia persistente.

Ossiuri (foto web)

Per le ciarmavermi siciliani la causa è "Nu scantu" ossia uno spavento improvviso. Le persone più colpite sono quelle più deboli, come i bambini e le donne. A tal proposito Pitrè scrive: <<Questi vermi hanno la loro sede in un dato posto degli intestini e si raccolgono e aggomitolano insieme in forma di ciambella, detta "cuddura di lì vermi”>>. Affinché la pratica si svolga in modo corretto, la ciarmavermi e il bambino debbono essere a digiuno. Il digiuno è una pratica comune a tutte le religioni o riti propiziatori, perché rende il corpo e l’anima puri, non contaminati da agenti esterni. Oltre all’ orazione- scongiuro, la guaritrice utilizza alcuni strumenti, come uno spicchio d’aglio, dell’olio d’oliva, una tazzina da caffè, una bacinella piena d’acqua e uno spago. La mano da utilizzare è quella sinistra perché, come scrive Giuseppe Bonomo in Scongiuri del Popolo Siciliano, <<la magia ama fare il contrario della Religione e della vita sociale. Bisogna pure tener presente che l'inversione dei gesti, delle azioni, delle parole è una delle forze della magia>>.

Ciarmavermi (foto web)

Passiamo al rito vero e proprio. Si prende una tazzina di caffè, si schiaccia all’interno uno spicchio d’aglio e si aggiunge olio d’oliva crudo. Poi si sporca un po' il bordo della tazzina e si tiene in mano. Per iniziare si fa il segno della croce, si recita il Padre Nostro e si ripete "Luni santu, Marti santu, Mircuri santu, Juvi santu, Venniri santu, Sabatu santu, a Duminica di Pasqua u vermi 'nterra casca". Al termine dell’orazione con la mano sinistra si fa il segno della croce in direzione dell’ombelico del paziente. Si prende la tazzina, si capovolge sull’ombelico e si continua con lo scongiuro. Se ci sono veramente i vermi la tazzina si attacca all’ombelico, altrimenti rimane staccata. Se i vermi non ci sono, non si attacca, si stacca subito. 

A Barrafranca (EN) la guaritrice A. B. (per la privacy citiamo solo le iniziali del nome) intervistata dalla scrivente, utilizzava un procedimento più lungo: dopo aver fatto sdraiare il paziente con la pancia scoperta, prendeva dell’olio di oliva, ciarmato per l’occasione (ossia reso atto alla guarnizione mediante particolari pratiche che solo la guaritrice conosce) e inizia con il pollice, l’indice e il medio della mano destra, uno per volta, e dà piccoli tocchi di polpastrelli unti di olio sulla pancia, partendo dall’ombelico e poi tutto attorno. Terminato il procedimento con la mano destra, si ripete il tutto con la mano sinistra. Alla fine, la guaritrice fa un segno della croce con la mano sinistra. Il rito si deve ripetere per un totale di 3 giorni. La domenica successiva la ciarmavermi fa ritornare il paziente per controllare, attraverso un altro rito, se i vermi sono veramente scomparsi. Si prende un grosso filo di cotone, che usavano le nonne per cucire, e una bacinella piena d’acqua. Si prende il filo e si misura la lunghezza del corpo del pazienta, a partire dalla punta del pollice della mano sinistra e, attraversando tutto il corpo, fino al pollice della mano destra. Si continua misurando dalla testa fino alla punta dei piedi e dal femore destro e sinistro fino alla punta dei piedi. Poi il filo veniva raccolto tra il dito indice e il dito medio della mano sinistra (le dita debbono rimanere separati) e viene tagliato a pezzetti e buttato nella bacinella piena d’acqua. Se i pezzetti vanno a fondo vuol dire che i vermi sono moti. Se alcuni pezzetti rimanevano a galla, contorcendosi, non tutti i vermi sono morti e bisogna rifare la pratica.

Ritornando allo scongiuro, l’invocazione contenuta in esso è indirizzata alla Settimana Santa che, nella sua sacralità, diventa veicolo di guarigione. <<Si invocano sette dimensioni potenti, sette entità che i questa parte dell’orazione sono caratterizzate soltanto al loro legame col tempo, col numero e col sacro>> scrive Mannella nel suo saggio "Il sussurro magico". I sette giorni della settimana nella connotazione di "santi" perdono il loro valore temporale per assumere quello della sacralità. Sempre dal Mannella apprendiamo che la cifra sette rappresenta la sintesi del tempo con il sacro: sette è la somma di tre, che rappresenta il divino e di quattro che rappresenta il tempo (quattro sono le stagioni, le fasi lunari, etc.). L’invocazione del ricordo ciclico della passione, morte e resurrezione di Cristo, della vittoria della vita sulla morte, permette al guaritore di eliminare il male. Come in tutte le pratiche popolari, anche in questa si mescolano sacro e profano, conoscenze arcaiche acquisite con una ciclicità gestuale che, per essere efficace, ha bisogno di un richiamo autorevole come il ricorso alle preghiere sacre.

FONTI: Giuseppe Pitrè, "Medicina popolare siciliana, volume unico, 1896; Roberto Martorana, L’uso della Mano Sinistra in alcuni Scongiuri popolari, pubblicato in www.academia.edu; "Verba et incantamenta carminum. Sulla medicina popolare siciliana" di Gian Mauro Sales Pandolfini, pubblicato il 1° gennaio 2018 in DIALOGHI MEDITTERRANEI, periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (TR); Pier Luigi Josè Mannella, Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2015 Studi e materiali per la storia della cultura popolare Edizione storica n. 27; fonti orali tra cui l’intervista di Rita Bevilacqua alla guaritrice A. B. di Barrafranca (EN). FOTO: pagina facebook “Preghiere e scongiuri popolari siciliani”; sito web DIALOGHI MEDITTERRANEI, periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (TR).  (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA