giovedì 30 aprile 2020

Feste e tradizioni del 1° maggio a Barrafranca e non solo


Foto dal web
Tante sono le feste e le tradizioni che si svolgono il primo giorno di maggio. Prima di parlare delle antiche tradizioni che si svolgevano in questo giorno a Barrafranca, diamo un’occhiata all'origine della festa del 1° maggio.
A livello nazionale si celebra la "festa dei lavoratori". L'episodio che ha ispirato la data nella quale in molti Paesi del mondo si celebra la Festa del lavoro (o dei lavoratori), avvenne negli Usa, a Chicago il 1° maggio del 1886. Quel giorno era stato indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti con il quale gli operai rivendicavano migliori e più umane condizioni di lavoro. Tre anni dopo, il congresso della Seconda Internazionale, riunito il 20 luglio 1889 a Parigi, lanciare l'idea della manifestazione: "Una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare a effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi". Poi, quando si passa a decidere sulla data, la scelta cade sul 1 maggio. Una scelta simbolica: tre anni prima, infatti, il 1° maggio 1886, una grande manifestazione operaia svoltasi a Chicago, era stata repressa nel sangue. Inizia così la tradizione del 1° maggio, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si prepara con sempre minore improvvisazione e maggiore consapevolezza. Nel volgere di due anni però la situazione muta radicalmente: Mussolini arriva al potere e proibisce la celebrazione del 1° maggio. Durante il fascismo la festa del lavoro è spostata al 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma; così snaturata, essa non dice più niente ai lavoratori, mentre il 1° maggio assume una connotazione quanto mai "sovversiva". Durante il fascismo la festa del lavoro è spostata al 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma; così snaturata, essa non dice più niente ai lavoratori, mentre il 1° maggio assume una connotazione quanto mai "sovversiva". All'indomani della Liberazione, il 1° maggio 1945 partigiani e lavoratori, anziani militanti e giovani, si ritrovano insieme nelle piazze d'Italia in un clima di entusiasmo. Appena due anni dopo il 1° maggio è segnato dalla strage di Portella della Ginestra, dove gli uomini del bandito Giuliano fanno fuoco contro i lavoratori che assistono al comizio. Nel 1947 la festa del lavoro e dei lavoratori divenne ufficialmente festa nazionale italiana. Nel 1948 le piazze diventano lo scenario della profonda spaccatura che, di lì a poco, porterà alla scissione sindacale. Bisognerà attendere il 1970 per vedere di nuovo i lavoratori di ogni tendenza politica celebrare uniti la loro festa. Oggi un'unica grande manifestazione unitaria esaurisce il momento politico.
San Giuseppe lavoratore (foto web)
La Chiesa Cattolica il 1° maggio festeggia san Giuseppe lavoratore. Pio XII (1955) istituì questa memoria liturgica nel contesto della festa dei lavoratori, universalmente celebrata il 1° maggio, per riconoscere la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell'uomo, esercizio benefico del suo dominio sul creato, servizio della comunità, prolungamento dell'opera del Creatore, contributo al piano della salvezza, rappresenta appunto da Giuseppe l’artigiano.
In particolare a Barrafranca (EN) fino agli anni ’70 la Camera del Lavoro per festeggiare il giorno dei Lavoratori allestiva in Piazza Regina Margherita il tradizionale "albero della Cuccagna"
L’albero della cuccagna è un gioco popolare in cui i contendenti si arrampicano su un palo ricoperto di grasso scivoloso per accaparrarsi prosciutti, salami o altri generi alimentari. Questi premi che pendono toccano a chi riesce a raggiungerli. Accanto all'albero erano organizzati vari giochi, come la corsa degli asini e la corsa dei sacchi. Una sagra vera e propria dove la gente poteva divertirsi e rilassarsi. L’origine dell’albero della cuccagna si perde nella notte dei tempi ed è probabilmente legata al culto celtico della fertilità. L’antropologo James Frazer ne fa risalire l’origine ai culti celtici diffusi in tutta Europa, le cosiddette feste di maggio.
Albero della cuccagna (foto web)
Il 1° maggio era legato in tutta Europa alle tradizioni popolari che s’ispiravano agli antichi culti del fuoco e degli alberi. Già in epoca romana, il 1° di maggio si offrivano sacrifici in onore di Maia. Tali feste vedevano al centro l’Albero di Maggio, venerato come simbolo della nuova vitae che rappresentava la nuova stagione. Attorno all'albero sacro si celebravano le feste principali delle civiltà agricole arcaiche: passaggio dalla primavera all'estate, rappresentato dell’albero di Primavera e il passaggio dall'autunno all'inverno, rappresentato dall'albero di Natale. L'albero di primavera, quello che rimanda ai riti orgiastici in onore della fecondità della terra e degli uomini, si chiama in tedesco Maibaum e in inglese Maypole: la figura di entrambi è quella di un alto albero adorno di fiori e nastri e colori, che connette il cielo e la terra, attorno al quale i giovani danzano a primavera. Lo stesso rito in Italia si chiama Maggio. Il culto pagano degli alberi sopravvive in Italia nel Calendimaggio toscano, le cui propaggini si estesero verso l’Appennino ligure ed emiliano. Un ramo fiorito o un albero intero, detto majo, colto nei boschi da brigate di giovani prima dell’alba, era portato in processione e offerto alle autorità del paese o alle ragazze. Per quanto riguarda la Sicilia, seguendo quanto scrive il Pitrè, possiamo dire che non è mai esistita una festa simile al Calendimaggio anche se «il giorno 1° di maggio per alcuni, - scrive il Pitrè- il giorno 3 per altri, è la festa de’ fiori. "U sciuri di Maju" (Chrysantemum coronarium) col suo fiorire annuncia la primavera. I ragazzi e le ragazze, il 1° del mese vanno a coglierne grandissima quantità e se ne adornano il capo, il seno, e a piene mani recano ed offrono altrui (Noto). Altri né fan mazzolini e ne intrecciano ghirlande. I carrettieri notigiani ne parano cavalli, asini e muli».
Ritornando a Barrafranca, fino alla riforma del Concilio Vaticano II (1962-1965) che ebbe, tra le tante riforme, quella di eliminare alcune processioni barresi, il 1° maggio si portavano in processione le statue di san Giuseppe, che usciva dall'omonima chiesa (sita nell'attuale Piazza San Giuseppe (la chiesa fu definitivamente distrutta nel 1979) e la statua di san Pasquale Baylon (la Chiesa lo festeggia il 17 maggio) che usciva dalla chiesa di San Francesco. La processione, che percorreva l’attuale "via dei Santi", si svolgeva in occasione della festa dei lavoratori e della ricorrenza liturgica di  San Giuseppe protettore degli artigiani e dei lavoratori in genere. I pastori, invece, avevano come Santo protettore san Pasquale. Essendo presente a Barrafranca una statua di san Pasquale appunto, ed essendoci l’associazione chiamata "Società dei pastori" che aveva la sede in via Roma, accanto all’ex chiesa di san Giuseppe (gestita dal signor Giuseppe Mosto), si decise allora di portare in processione entrambe le statue: quella di san Giuseppe era portata a spalla dall'omonima Confraternita, mentre quella di san Pasquale dai membri "Società dei pastori". In questo modo venivano rappresentate tutte le categorie dei lavoratori.
Santa Famiglia di Nazareth- Barrafranca
Nel primo decennio del 2000 in questo giorno si festeggiava la Santa Famiglia di Nazareth, la cui statua si trova nell'omonima chiesa. Agli inizi, la festa si svolgeva in concomitanza della festa liturgica dell’ultima domenica di dicembre. Tuttavia i festeggiamenti, che prevedevano anche una processione serale, non erano molto seguiti dai barresi, forse  a causa delle fredde temperature  di dicembre. Così il compianto don Giovanni Pinnisi, parroco della chiesa Santa Famiglia di Nazareth, in comune accordo con la Diocesi di Piazza Armerina, fece spostare i festeggiamenti il 1° maggio. Questo spostamento non ebbe l’effetto desiderato, in quanto i barresi, da antica tradizione, andavano in pellegrinaggio alla vicina Aidone che, proprio in quel giorno, festeggia san Filippo Apostolo. La festa della Santa Famiglia fu spostata all'attuale data, quella dell’ultima domenica di luglio.
Purtroppo a Barrafranca queste antiche tradizioni sono scomparse, fatta eccezione del pellegrinaggio a San Filippo Apostolo presso Aidone. 

FONTI: www.focus.it; James Frazer, Il Ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri, 2013; Giuseppe Pitrè, Feste popolari siciliane, 1881; fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 


giovedì 9 aprile 2020

L’origine della “Visita ai Sepolcri” del Giovedì Santo


Sepolcro o "Altare sella Reposizione" di Barrafranca (EN)
Cerchiamo di capire l’origine della pratica devozionale cristiana conosciuta come "Visita ai Sepolcri", che si svolge la sera del Giovedì Santo.
"Il giro o visita ai Sepolcri", secondo padre Valerio Mauro docente di teologia sacramentaria, è nato dall'intreccio di devozioni diverse: il pellegrinaggio alle sette chiese e la venerazione verso il Sacramento Eucaristico. Il pellegrinaggio alle sette chiese, nella sua forma originaria, è dovuto a San Filippo Neri, che il giovedì grasso del 1552, in opposizione ai festeggiamenti pagani del carnevale, istituì il giro delle sette maggiori basiliche romane. Col tempo, questa pratica acquistò un valore molto penitenziale, spostandosi da carnevale alla fine della Quaresima, il venerdì o anche il sabato e facendo memoria delle tappe di Gesù nel percorso della sua passione. Risale al Medioevo la cosiddetta “visita ai sepolcri”, mutuata dai pellegrinaggi che, da ogni parte d’Europa, andavano a visitare il luogo che accolse il corpo di Gesù, su cui era stata costruita la grande basilica costantiniana. Nel 1347 fra Nicolò da Poggibonsi nel suo Libro d’Oltremare (scritto dopo il suo pellegrinaggio in terrasanta del 1345-1350) lo descrive, e tali righe avranno una grande fortuna: «La chiesa dentro è umida e fredda e poco lustra... ma veramente egli è luogo da fare penitenza per l'anima». L’impossibilità di recarsi direttamente, indusse molte comunità alla fine del Medioevo a edificarne riproduzioni. Da qui le visite dei fedeli nel corso dei secoli (Tormo Armando, La visita ai Sepolcri e le riproduzioni sacre, Corriere della Sera online, 21 marzo 2008, pag. 15). La chiese da visitare erano SETTE come sette erano le tappe di Gesù durante la passione: dal cenacolo al Getsemani; dall'orto alla casa di Anna; da questa alla casa di Caifa; da lì al palazzo di Pilato; da quello di Pilato a quello di Erode; di nuovo da Erode a Pilato; e infine dal palazzo di Pilato al Calvario. Qualche studioso di tradizioni popolari il SETTE rimanda invece alle SETTE parole pronunciate da Gesù sulla Croce.
Le ultime parole di Gesù pronunciate sulla croce non sono altro che  sette frasi che i vangeli 
attribuiscono a Gesù durante la sua passione in croce:
"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"
"Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno"
"In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso"
"Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito"
"Donna, ecco tuo figlio!"; "Ecco tua madre!"
"Ho sete"
"È compiuto!"
Le visite ai Sepolcri, organizzati soprattutto dalle confraternite, hanno lo scopo di un pellegrinaggio, di un momento di riflessione sul significato dell’imminente sacrificio di Cristo, per cui flotte di fedeli si aggregavano alle confraternite, eseguendo durante il tragitto preghiere e lamenti tipici della Settimana Santa.
Antoine Lafréry, Le sette chiese di Roma. Anno Santo 1575.
In un’incisione su rame di Antoine Lafréry dal titolo "Le sette chiese di Roma. Anno Santo 1575" (si trova nella raccolta a "Speculum romanae magnificentiae", 1575) si possono scorgere quali sono le sette chiese di Roma che fanno parte della pratica religiosa conosciuta come "Giro della Sette Chiese di Roma". Si tratta di uno dei pellegrinaggi più famosi della città eterna. Da questo pellegrinaggio trae origine la pratica religiosa di visitare il Giovedì Santo "Gli altari della Reposizione" conosciuti in Sicilia come "Sepolcri". E’ CONSIDERATO UN ATTO DI DEVOZIONE TIPICO DEL GIOVEDI’ SANTO CHE CONSISTE NELL'ENTRARE IN SETTE DIFFERENTI CHIESE E NEL SOFFERMARSI IN CIASCUNA DI ESSE A PREGARE NEI PRESSI DEL CRISTO MORTO.
La visita era espressa col pellegrinaggio dei fedeli versi 7 basiliche celebri, le più antiche e rappresentative di Roma: 
Basilica di San Giovanni in Laterano
Basilica di San Pietro in Vaticano
Basilica di San Paolo fuori le mura
Basilica di Santa Maria Maggiore
Basilica di San Lorenzo fuori le mura
Basilica di Santa Croce in Gerusalemme
Basilica di San Sebastiano fuori le mura
Praticato a piedi, il giro fu ufficializzato e ravvivato nel XVI secolo da San Filippo Neri, presbitero italiano. La visita non è tuttavia invenzione del Santo. Filippo riprese l’antichissima tradizione medioevale dei pellegrini alla tomba di Pietro e Paolo. Tradizione che nel corso dei secoli, soprattutto con il primo grande Giubileo istituito nell'anno 1300 da Bonifacio VIIII (1294-1303) aveva indicato le tappe che il devoto viaggiatore doveva compiere una volta giunto nella Città santa degli apostoli e dei martiri. Bisogna arrivare al 1552 affinché il pellegrinaggio diventi una pratica stabile e organizzata, tanto che il Santo, col crescere del numero dei partecipanti, decise di dedicare a esso un giorno fisso all'anno: il Giovedì Grasso. L’inizio della visita delle sette chiese fu il 25 febbraio 1552, un Giovedì Grasso, per contrapporre ai festeggiamenti del Carnevale Romano, la devozione ai luoghi più santi di Roma e la meditazione sulla Passione.
Il cammino nella sua forma originaria consiste in un percorso ad anello di circa 20 km, 16 miglia terrestri, che conducono alle principali chiese di Roma all'epoca in cui visse il santo: San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le mura, San Giovanni in Laterano, San Lorenzo fuori le mura, Santa Maria Maggiore, Santa Croce in Gerusalemme, San Sebastiano fuori le mura. La lunghezza del tracciato è solitamente percorsa dai pellegrini in due giornate, ma per i più preparati è possibile completarlo anche in una giornata, difatti in origine s’impiegava una giornata intera per completare il giro, dai primi Vespri, ai primi del giorno successivo. La Via delle Sette Chiese copre il percorso tra San Paolo fuori le mura e San Sebastiano. Ora il giro delle Sette Chiese si svolge in gruppo in cammino notturno due volte l’anno, a settembre e a maggio, poco prima del 26 maggio festa di San Filippo Neri, guidato da un Padre della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)
RITA BEVILACQUA




domenica 5 aprile 2020

Simbologia e significato delle PALME e della DOMENICA delle PALME

Palme e violacciocche 
  La Domenica delle Palme o Domenica della Passione del Signore chiude il lungo periodo Quaresimale, iniziato il mercoledì delle ceneri, e apre la Settimana Santa, la quale celebra i misteri della salvezza portati a compimento da Cristo negli ultimi giorni della sua vita. In questo giorno si rievoca l’entrata di Gesù a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso in Palestina, e in ricordo del suo trionfo, si benedicono le palme e si legge il racconto della sua passione e morte. Caratteristica di questo giorno è la benedizione delle palme. Tale uso è documentata già a Gerusalemme dalla fine del IV secolo e quasi subito fu accolta dalla liturgia della Siria e dell’Egitto. In Occidente giacché questa domenica era riservata a cerimonie pre-battesimali (il battesimo era amministrato a Pasqua) e all'inizio solenne della Settimana Santa, benedizione e processione delle palme trovarono difficoltà a introdursi; entrarono in uso prima in Gallia (sec. VII-VIII) dove Teodulfo d’Orléans compose l’inno ” Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor… ” (Gloria, lode e onore a te, Re Cristo Redentore); poi in Roma dalla fine dell’XI secolo.
A Barrafranca (EN), come in tanti paesi della Sicilia’uso di portare nelle proprie case l’ulivo o la palma benedetta ha origine soltanto devozionale, come augurio di pace. Difatti, anticamente, i ramoscelli benedetti venivano appesi dietro le porte, nelle stanze, sopra i letti, in modo che potessero proteggere la famiglia. La palma è un classico simbolo di fertilità e un emblema della vittoria. E' anche considerata un simbolo di longevità, mentre il ramo di palma rappresenta un simbolo di pace.

Palma intrecciata 
Come regola generale, la palma utilizzata la Domenica, è la palma da datteri, le sue foglie, raggiungono la lunghezza di 1-2 metri e di solito vengono chiamate  rami di palma. I popoli dell'Asia Minore usavano le foglie di palma da dattero per rituali funebri (come nell’Occidente hanno deciso di utilizzare le corona). Nel cristianesimo, la palma è simbolo del sacrificio e della purezza. 
Questo simbolismo nasce dal mito della dea sumera Ishtar la dea della fertilità, che si sposò con il dio-pastore Dumuzi (Tammuz)- dio della crescita e della fruttificazione delle palme da dattero, che in Grecia prese il nome di Adone. In alcuni testi antichi era chiamato “Dumuzi dio del grano”, in altri era collegato agli alberi da frutto.
Volacciocca (balacu)
La palma, in particolare quella da dattero, è uno degli alberi più presenti nella terra della Bibbia, soprattutto in Giudea. Il suo frutto, dolce come il miele, nutre i nomadi e gli abitanti nel deserto. Famosa per le lunghe radici con le quali assorbe l'acqua nascosta nella profondità della terra, la palma cresce rigogliosa nel deserto e nelle zone aride, rimanendo sempre verde, cioè, viva. Nel vangelo di Giovanni, la palma indica la vittoria di Gesù sulla morte e la sua risurrezione.Il vangelo di Giovanni, a differenza dei sinottici che descrivono l'ingresso di Gesù a Gerusalemme acclamato con rami di ulivo, narra che la gente lo seguiva con in mano rami di palma: «Presero rami di palme e uscirono incontro a lui acclamando: "Osanna!/ Benedetto colui che viene nel nome del Signore..."» (Gv. 12,13). Nell'Apocalisse i martiri, a causa della loro fede, sono i risorti che «stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani» (Ap 7,9). 
Nel Cristianesimo la palma detta della “vittoria” è il simbolo dell’ascesa, della rinascita, della vittoria della vita sulla morte. Per questo motivo i primi martiri sono raffigurati con  una palma in mano. Anticamente la parmuzza veniva 'ntrizzata a casa.Qualche giorno prima, gli uomini andavano in campagna a tagliare le foglie più interne della pianta. Portate a casa, veniva tenuta al buio, perchè si scolorisse e assumesse il classico colore giallino.  Il giorno prima della Domenica delle Palme, le donne le tagliano accuratamente in elementi più piccoli, tenuto conto che i destinatari delle palme erano i bambini, suddividendo le foglie in filamenti e intrecciandole. Realizzata la palma, le foglie rimaste venivano utilizzate per forma croci e "panariddi" (cestini), i quali erano collocati negli interstizi della trama della palma, assieme ad alcuni fiori di stagione come le margherite e le violacciocche, chiamate in dialetto balacu.
Fonte: Rita Bevilacqua, SETTIMANA SANTA A BARRAFRANCA, Bonfirraro Editore, 2014. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

venerdì 3 aprile 2020

L’antico detto siciliano "I tri brillanti quaranta jorna tira avanti"


Foto del web
Nella tradizione "agro pastorale", fatta di gente, di terra, di fatica, di raccolti, lo scandire dei giorni lavorativi era regolato dai mutamenti climatici. Tanti sono i detti e i proverbi che hanno come argomento i cambiamenti climatici che caratterizzano ogni mese dell’anno.
Importante per i contadini era il mese di aprile. Il mese che conduce verso la bella stagione, verso la rinascita (spesso la Pasqua è a ridosso di questi giorni) che prepara le primizie. Il 3 aprile (in alcune zone agricole il 4) era un giorno atteso dai contadini per le condizioni meteorologiche perché servivano a pronosticare se l'annata agricola sarebbe stata buona. Un giorno propizio, dunque, nel quale se ci fosse stata pioggia senz'altro avrebbe piovuto per 40 giorni (anche non continui) e presumibilmente era scongiurata la siccità.
La saggezza popolare siciliana recitava: "I tri brillanti quaranta jorna tira avanti" (I tri brillanti quaranta giorni va avanti) o "Tri brillanti quaranta jorna continuanti" (Tre brillanti continuano quaranta giorni). In altre parole: se il 3 aprile ci fosse stato cattivo tempo, allora la primavera sarà stata caratterizzata per oltre un mese da cielo grigio e precipitazioni.
In altri paesi d’Italia si parla, invece, di quattro brillanti, ossia il giorno cui fare riferimento è il 4 aprile. Comunque sia, il senso della saggezza popolare non cambia. Si potrebbe ipotizzare che l’origine dell’attenzione metrologica ai primi giorni di aprile sia molto antica.
Qualcuno fa risalire questa tradizione "agro pastorale" a prima della riforma del calendario gregoriano. Allora il capodanno cadeva proprio tra il 25 marzo e i primi di aprile, di conseguenza un periodo di propiziazione e di fertilità, tipico dei cambiamenti annuali. Dunque aprile era visto come il mese della rinascita della natura dopo il lungo letargo invernale, durante il quale la terra presenta le prime preziose fioriture.
Secondo alcuni studi, il proverbio nasce 1884: i primi quattro giorni del mese erano chiamati "brillanti". Secondo gli studiosi di tradizioni popolari, la parola "brillanti" probabilmente deriva da una traduzione errata di a-brilent (aprile, aprilanti). Infatti, un antico detto definisce "aprilante" il primo giorno di aprile quando è piovoso, e i "quattro aprilanti", annunciavano un’annata buona se erano piovosi.
Il dizionario Treccani riporta: aprilante agg. [der. di aprile]. – Del mese di aprile. Questo termine è usato solo nel proverbio "quarto (o terzo) aprilante quaranta dì durante" il tempo che fa il quarto (o, nella variante, il terzo) giorno d’aprile dura quaranta giorni. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

mercoledì 1 aprile 2020

La storia del ritrovamento del SS Crocifisso di Barrafranca


Altare SS. Crocifisso di Barrafranca

Tempo di Quaresima e tra i barresi cresce l’ansia di rivedere il SS Crocifisso che è portato in processione la sera del Venerdì Santo. La storia del ritrovamento del Crocifisso di Barrafranca (EN) è avvolta da un’aurea di mistero. La storia si basa su racconti popolari, tramandati oralmente e arrivati ai nostri giorni quasi inalterati.
Difficile datarne il ritrovamento. Secondo il Sac. Giunta, la data del ritrovamento è da attribuire a un’epoca antecedente al 1662; infatti scrive: «Negli atti di notar Scipione Sortino si trova che i confrati del SS. Crocifisso di S, Sebastiano gli vollero erigere una nuova cappella nel 1662». Secondo antica tradizione (tuttora riportata dietro il santino del SS Crocifisso) un certo Salvatore Ingala (recenti studi hanno ipotizzato che si chiamasse Antonio) stava arando il terreno sito in contrada “Rastrello” (adesso di proprietà della famiglia Vetriolo), quando la punta del vomere dell’aratro, trainato da una coppia di mule, spostò e sollevò una grande lastra di pietra. 
Luogo del ritrovamento del SS. Crocifisso di Barrafranca
Il contadino sentì il tonfo dovuto alla caduta di pietrame e capì che lì sotto c’era una fossa. Spostata la lastra, vide che sotto vi era una nicchia a forma di alcova su cui era appeso un Crocifisso, inchiodato dentro a una raggiera di forma ovale, ai cui lati erano accesi dei “lumeri di crita” ossia dei vasi di terracotta, su cui vi erano delle candele accese. Sempre seguendo la tradizione, il contadino, tornato a casa, riferì tutto allo zio Sac. Calcerano (secondo recenti studi lo zio non si chiamava Calcerano, ma il nome “calcerano” forse si riferisce a uno zio del signor Ingala che era cappellano al carcere di Barrafranca) che gli consigliò di andare a prenderlo e di consegnarlo a lui. Il Crocifisso fu portato in varie chiese del paese, appeso a un chiodo ma l’indomani veniva trovato a terra, finché non fu portato nella chiesa di San Sebastiano, oggi chiesa Madre, dove tuttora si trova. In tal senso significativa è un’intervista realizzata agli inizi degli anni ’80 dai professori Diego Aleo e Gaetano Vicari alla signora Rosa Ingala (1897-1982), discendente del contadino Ingala, in cui racconta le vicende del ritrovamento del Crocifisso. La signora Rosa riporta la versione della tradizione con un’unica eccezione: il contadino lo chiama Antonio e non Salvatore.
Festa di Santa Croce- Casteltermini 
Da alcuni studi da me condotti, simili storie di ritrovamenti di statue del Crocifisso si ritrovano in altri paesi siciliani, con diverse varianti, ma con alcuni elementi comuni. Ogni anno, la quarta domenica di maggio a Casteltermini (AG) si svolge la “Festa di Santa Croce”, conosciuta come la festa del Tataratà. La festa nasce dal rinvenimento di una croce di legno, sepolta in aperta campagna. Leggenda vuole che una vacca, ogni giorno, s’inginocchiasse in un preciso punto della campagna di Chiuddia, i pastori incuriositi scavarono in quel punto e trovarono la Croce. Nello stesso luogo fu eretto un eremo in suo onore. Dal ritrovamento della croce nasce quindi la festa di santa Croce, inizialmente celebrata con una festa campestre ogni giorno 3 del mese di maggio e in seguito al 1667 ogni IV domenica di Maggio. Anche qui la leggenda vuole che il Santissimo Crocifisso sia ritrovato in campagna, grazie all'intervento di animali.
Festa del SS. Crocifisso- Calatafimi Segesta
Agli inizi di maggio a Calatafimi Segesta (TP) si svolge la festa del SS. Crocifisso, che risale al 1657. Inizialmente i festeggiamenti si celebravano in giugno; furono poi spostati a settembre e poi agli inizi di maggio. La leggenda vuole che tra il 23 e il 25 giugno 1657, nella chiesa di S. Caterina, un crocifisso ligneo nero operò vari prodigi. Una mattina, mastro Fontana trovò il Crocifisso caduto e istintivamente lo rimise a posto. Il giorno dopo lo ritrovò di nuovo a terra con un braccio staccato e dopo avergli incollato il braccio, con una zagaredda (nastro) azzurra. Lo appese alla croce. Il giorno 23 giugno 1657, mastro Fontana si recò nella chiesa di Santa Caterina con l'infermo Francesco Saltaformaggio, e vedendo che nuovamente il Crocifisso era di nuovo a terra, chiese all'amico di aiutarlo e glielo diede in mano e immediatamente guarì. Mastro Fontana si portò a casa la zagaredda che fece miracolo sulla moglie indemoniata. Nel novembre 1657, due ricchi borghesi, donano quattro once e 35 tarì per l'altare e altre spese necessarie al culto come chiesto dalla Curia Vescovile di Mazara. 
Che cosa ci sia di vero in questi racconti non è dato saperlo. Molti gli elementi comuni: dal periodo storico in cui si svolgono le vicende, al mondo contadino protagonista delle leggende. Ciò che  li accomuna è la fede popolare in quel Crocifisso ritrovato per caso e spesso miracoloso, in cui il popolo riversa la fede e la speranza della Redenzione. 

FONTI: Rita Bevilacqua, “Settimana Santa a Barrafranca”, Bonfirraro Editore, 2014; Diego Aleo  Gaetano Vicari, “La grande eredità. Viaggio attraverso le tradizioni della settimana santa nel cuore della Sicilia, ristampa 2018; Giuseppe Schifanella, “Una croce nella leggenda e nella storia”, 1989; www.calatafimisegestaitinerario.com(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 


lunedì 30 marzo 2020

La “Pasqua cristiana” e il “Navigium Isidis”: perché la Pasqua cade la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.



La Pasqua fa parte di quelle feste cristiane che non hanno una data fissa. Essa varia di anno in anno secondo un preciso calcolo: essa ricorre la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Da dove origina questo calcolo? Innanzitutto dobbiamo dire che la Pasqua cristiana deriva dalla Pasqua ebraica «La Pasqua ebraica e quella cristiana avevano in comune il tema della festa, l’attesa di una liberazione futura, per i cristiani ovviamente intesa come ritorno di Cristo» (Christoph Markschies, In cammino tra due mondi: strutture del cristianesimo antico). Così, in Asia minore, le prime comunità cristiane festeggiavano la resurrezione di Cristo a partire dal 14 Nisan, con un digiuno, che durava fino al mattino successivo e la stessa sera veniva letto il racconto della Pasqua descritto nel libro dell’Esodo (Es 12). La festa venne così a coincidere con l’equinozio di Primavera, «anche perché secondo la filosofia patristica, il mondo fu creato da Dio in primavera, nel mese di Nisan, settimo mese secondo il calendario ebraico, ma primo per importanza a quanto sta scritto nell’Esodo 12, 2. » (C. Bernardi).
A questa pratica di festeggiare la Pasqua diffusa in Asia Minore, s’iniziò a contrapporsi l’usanza romana di festeggiare la Pasqua cristiana di Domenica, sia perché nei vangeli si leggeva che Cristo era risuscitato il “giorno dopo il Sabato”, sia perché diventò una pratica sancita dallo stesso impero romano, da quando l’imperatore Costantino I nel 321 d. C. emanò la prima legge civile sulla Domenica: questo giorno dedicato al “diessolis”, divenne ufficialmente giorno di riposo. In tal modo, la domenica divenne il giorno dedicato al Signore.
Questo differente modo di celebrare la Pasqua delle prime comunità cristiane sfociò nella controversa questione conosciuta come “questione quarto decimana” (dal 14 di Nisan): la disputa riguardava, appunto, il giorno in cui si dovesse festeggiare la Resurrezione di Cristo. La questione fu risolta durante il Concilio di Nicea del 325 d.C. indetto dall’imperatore Costantino, dove fu stabilito che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima Domenica dopo la luna piena che seguiva l’equinozio di primavera. Essendo in vigore il calendario promulgato da Giulio Cesare (il calendario giuliano, elaborato dall’astronomo greco Sosigene di Alessandria nel 46 a.C.), il concilio fissò l’equinozio di primavera il 21 marzo. Questa prassi permise di considerare la Pasqua come la vittoria dei figli della luce sulle opere delle tenebre, in quanto, dopo l’equinozio di primavera, il giorno diventa più lungo della notte. 
Il concilio approdò a queste conclusioni derivandole dalla filosofia patristica, la quale riteneva che «Cristo fosse morto e Risorto nella settimana coincidente con la prima settimana della creazione … Particolare significato aveva il primo, il quarto e il sesto. Il primo era l’equinozio, poiché Dio separò la luce dalle tenebre, creò il giorno e la notte, divisi in parte uguali. Il quarto giorno, creazione del sole e della luna, era un plenilunio. Nel sesto Dio creò l’uomo e si riteneva che sempre in un sesto giorno l’uomo avesse peccato e fosse morto. Per la Patristica Gesù fece in modo che la sua cattura e la sua passione avvenissero nella settimana primordiale, nella quale convergono plenilunio, equinozio e sesto giorno. Quindi l’attuale calcolato del giorno in cui festeggiare la Pasqua oltre che da considerazioni religiose delle prime comunità cristiane, che non vollero confondersi con le comunità ebraiche, esso derivò anche da motivi politici, di supremazia del potere di Roma, dalla volontà dell’imperatore Costantino di render forte il potere della chiesa di Roma sulle chiese asiatiche, creando così un impero unito non solo politicamente anche religiosamente. Non dobbiamo dimenticare che fu proprio l’imperatore Costantino con l’editto di Milano del 313 d.C. a concedere libertà di culto ai cristiani. Fu il primo passo verso il riconoscimento, avvenuto nel 380 d.C. con l’Editto di Tessalonica emanato da Teodosio, del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero.
Riti propiziatori dedicati alla primavera, atti a spaventare i demoni dell’inverno, si ritrovano anche nel mondo pagano. Questo era un modo arcaico di spiegare l’alternarsi delle stagioni, la rinascita della natura dopo il torpore invernale. Studi approfonditi sulle feste del mondo antico, emerge una festa che si potrebbe considerare la progenitrice della Pasqua cristiana: la festa del “Navigium Isidis”.
Nel mondo antico, la festa in onore della Dea egizia Iside, importata anche nell’Impero Romano, era caratterizzata dalla presenza di gruppi in maschera, come attesta lo scrittore Lucio Apuleo nel libro XI delle sue Metamorfosi. Che cosa hanno in comune il Carnevale con il “Carrus Navalis”? Il termine si rifà alla cerimonia del “Navigium Isidis” culminante nel “Carrus Navalis”. Il “Navigium Isidis” (la nave di Iside) consisteva in un corteo in maschera in cui un’imbarcazione di legno (Carrus Navalis) era ornata di fiori. L’imbarcazione era issata su un carro che si diceva appunto “navale” ed era trainata da umani mascherati, le cui maschere richiamavano non solo i defunti, anche i demoni del mondo dei morti. Si trattava di una festa molto allegra, dedicata alla vicenda della Dea Iside che fece risorgere il suo sposo Osiride. Il richiamo al connubio Morte- Resurrezione è chiaro. Inoltre in Egitto la festa si teneva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Ciò corrisponde all’odierna Pasqua cristiana. Nella tradizione romana del “Carrus Navalis” fu introdotto un elemento nuovo: la burla, con lo scopo di sbeffeggiare personaggi influenti. Questo perché i romani avevano l’abitudine di ironizzare sui potenti. Si potrebbe così ipotizzare che, con l’avvento del Cristianesimo, la festa del “Navigium Isidis” fu smembrata per formare due festività: Carnevale (Carrus Navalis, la processione delle maschere) e Pasqua (Iside che fa risorgere il proprio amato dopo l’equinozio di primavera).

FONTI: Rita Bevilacqua, “Settimana Santa a Barrafranca”, Bonfirraro Editore, 2014; Claudio Bernardi, La drammaturgia della Settimana Santa in Italia; Néstor F. Marqués, Un anno nell'antica Roma: La vita quotidiana dei romani attraverso il loro calendario; www. storieromane.altervista.org. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

sabato 7 marzo 2020

"Il Morbo della Spagnola" che colpì Barrafranca nell’estate 1918

Barrafranca- cartolina d'epoca

Tra le tante vicende che colpirono il paese di Barrafranca (EN), oggi vogliamo ricordare "Il Morbo della Spagnola" che colpì Barrafranca nell'estate 1918.
Mentre infuriava la 1ª Guerra Mondiale, anche a Barrafranca un morbo falcidiò parte della popolazione, toccando, secondo le stime del comune, tremila casi di contagio. Tra gli ultimi giorni di agosto e settembre 1918 arrivò in paese un morbo, chiamato allora "Spagnola". Il morbo fu denominato in questo modo non perché fosse apparso in Spagna, ma perché fu l’unico paese che ne pubblicò la notizia. Infatti, il paese iberico non era coinvolto nel conflitto bellico e quindi la notizia non fu censurata come invece avvenne nelle nazioni in guerra che temevano il diffondersi del panico.
Morbo della Spagnola 1918-Foto di repertorio 
Si trattò di una terribile influenza pandemica, che si trasmise attraverso tosse e starnuti, o portando le mani alle mucose del naso o degli occhi. Il virus influenzale A/H1N1 attaccò le vie respiratorie, per cui, oltre alla febbre, comparivano i banali sintomi da raffreddore, con tosse. Nei casi più gravi anche polmonite. Da alcuni studi condotti in America, il mordo non fu causato da un'improvvisa "migrazione" di geni dell'aviaria verso il ceppo dell'influenza umana, ma in un ceppo già esistente si verificò una variazione nel tipo di emoagglutinina (glicoproteina antigenica presente sulla superficie di alcuni virus) e fu questo a rendere la "spagnola" particolarmente virulenta. Gran parte delle vittime furono giovani sani tra i 18 e i 29 anni di età, molti dei quali soldati, una fascia di popolazione che di solito è più resistente a questo tipo d’infezione. «Fu la più grande epidemia d’influenza della storia, eppure gli anziani, che di solito sono i più colpiti dalla malattia, ne furono quasi completamente immuni», spiega Michael Worobey, biologo dell’University of Arizona di Tucson che ha diretto una ricerca sull'argomento. Secondo lo studio, i giovani furono particolarmente vulnerabili alla spagnola (che uccise un contagiato su 200) perché da bambini non furono esposti a un tipo d’influenza simile. 
Dottor Angelo Ippolito- medico barrese
A portare il morbo a Barrafranca (EN) fu un militare di stanza a Palermo, Salvatore Balsamo, venuto in paese per un breve periodo di licenza matrimoniale. Il matrimonio fu celebrato il 25 agosto. Già febbricitante, il Balsamo si mise a letto. Il povero militare era inconsapevole di essere il portatore di una terribile epidemia che stava mietendo morti in tutto il mondo. Il male fu così virulento che il giovane militare morì il 29 agosto. A Salvatore Balsamo seguirono i coniugi Tropea- Pirrelli; lei la Pirrelli, morì il 2 settembre, mentre Tropea il 9 settembre. Ormai nella popolazione si fece strada che si trattava di una pandemia. La terribile epidemia dilagò rapidamente, cogliendo la popolazione impreparata.


Don Luigi Giunta
Secondo il resoconto del parroco Giunta, diretto protagonista dell’evento e riportato nel suo libro su Barrafranca, stando agli atti del municipio, i colpiti furono circa tremila. Anche i medici, oltre ad essere pochi per infezione si ritirarono dal servizio ad eccezione del dottor. Angelo Ippolito che si prodigò con abnegazione. Il popolo si ammassò dietro la sua porta, già dalle 4 del mattino. Intere famiglie rimasero chiuse nelle loro case, senza nessun soccorso. I cadaveri si ammucchiarono nelle case. Per mancanza di trasporti funebri, fu difficile rimuovere i cadaveri. Le casse mortuarie, realizzate con quattro rozze tavole bianche, raggiunsero il costo di 400 lire. Quando iniziò a mancare il legno, s’iniziò a costruire casse con le tavole dei letti. Altri chiusero i cadaveri nei cassettoni da biancheria e le donne avvolsero i loro piccoli figli in dei cenci e li accompagnarono al cimitero. Dall'opera prestata ai malati, il Giunta notò che il morbo colpì sia uomini sia donne, in una fascia di età compresa tra i 18 e i 44 anni, e più di tutti le persone che erano colpite da altre infermità. Spesso i becchini non ebbero neanche il tempo di preparare le fosse, tanto che alcuni cadaveri giacevano nel cimitero all’aperto, con grave danno per i quartieri limitrofi. Più colpiti furono i bassifondi del quartiere "Costa", probabilmente perché più vicino al cimitero.
L’unica farmacia dovette chiudere, poiché il direttore si ammalò. L’amministrazione comunale, capeggiata in quel periodo dal sindaco Cav. Onofrio Virone (1880-1948), chiese l’intervento dell’esercito che inviò tre medici militari, Cap. Med. Salvatore Mandarà da Vittoria, Pietro Spampinato da Biancavilla e Cap. Med. Amato, e 10 soldati della territoriale per il trasporto dei cadaveri e lo scavo delle fosse. I medici non riuscivano a trovare un modo per tamponare la situazione e chiesero un consulto al prof. Giuffrè, che rispose con una lettera in cui consigliava di utilizzare piccole dosi di chinino (Acido chinino è un composto organico, ossiacido della serie del cicloesano, contenuto nella corteccia di china, nelle bacche del caffè, e in diverse altre piante; si presenta in cristalli incolori, dal sapore molto acido; i suoi sali, chiamati chinati, hanno la proprietà di diminuire la produzione di acido urico).
Il popolo in preda alla disperazione, cercava conforto nella religione che trovò nei due soli sacerdoti rimasti attivi Don Luigi Giunta e Don Calogero Marotta. Nel suo libro, il Giunta racconta che in quei giorni il Vescovo di Piazza Armerina, mons. Mario Sturzo, ordinò che il SS Viatico (Comunione che si amministra ai malati in punto di morte) si portasse in forma privata. La mattina dalle 05.00 alle 09.00 andava alla ricerca d’infermi che avevano bisogno dei sacramenti. Dalle 09.00 fino a tarda sera, eccetto una mezzoretta per rifocillarsi, si giravano le strade del paese per ammucchiare i cadaveri, che furono riuniti nei quartieri e poi trasportati al cimitero.
Da parte dell’amministrazione comunale furono emanate una serie di ordinanze straordinarie in cui s’intimò, tra l’altro, la requisizione di legname per sopperire alla mancanza di bare, dell’olio d’oliva, della manodopera per la pulizia delle strade, dei bovini da macello per l’alimentazione degli infermi. Tra le altre cose si deliberò l’imposizione del prezzo del latte che non poteva superare lire 1,60 al litro e si vietò il suono delle campane a morto. Il paese fu suddiviso in 6 zone: la prima assegnata al dott. Angelo Ippolito, la seconda al dott. Mandarà, la terza dott. Benedetto Mattina, la quarta al cap. med. Amato, la quinta al dott. Mastrobuono e la sesta al cap. med. Spampinato. Questa suddivisione non fu mantenuta a causa dell’infermità di alcuni medici.
Da una stima sommaria i morti furono circa 500.

FONTI: Luigi Giunta, Cenni storici su Barrafranca, Caltanissetta, 1928.- Worobey M, Han GZ, Rambaut A, "Genesis and pathogenesis of the 1918 pandemic H1N1 influenza a virus" in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA