giovedì 30 giugno 2022

“Il pappagallino indovina ventura”

Pappagallino intovina vantura
Chi si ricorda del "Pappagallino indovina ventura" o "pappagaddinu da vintura"? Era un pappagallino che con il suo becco prelevava da una gabbietta un foglietto colorato, il fogliettino “pianeti della fortuna”, su cui era scritta la "ventura", ossia la previsione dell’avvenire o sorte a cui era destinato l’uomo. Andiamo per ordine.
Intorno agli anni 50/60 del secolo scorso, non era insolito vedere circolare nei paesi, soprattutto durante le feste e le sagre, strani forestieri con un pappagallino dentro una cassetta o gabbietta piena zeppa di bigliettini di tonalità diverse. Secondo il ricordo di alcuni anziani, a Barrafranca (EN) era una zingarella (o zingarello) che girava per le strade avvicinando le persone che incontravano o bussando a ogni casa, per offrire il loro speciale servizio: "a lettura da vintura", ossia la lettura del futuro. Con la modica somma di cinque lire o con pagamento in natura, la zingarella ti prediceva il futuro. La procedura era sempre la stessa: questa chiedeva all'interlocutore l’età, il sesso e lo stato civile e dopo la risposta apriva la gabbietta e il pappagallino con il becco estraeva un bigliettino colorato. C’era chi invece, spaventato dalla lettura del futuro, dava all'avvenente zingarella il denaro, senza farsi estrarre il bigliettino.
Bigliettino "Pianeta della Fortuna"
I bigliettini facevano parte della raccolta conosciuta come "I pianeti della fortuna". Si tratta di pubblicazioni popolari molto diffuse che riportavano su foglietti di diverso colore e di piccolo formato (cm 9x12) predizioni sul futuro e l'indicazione dei numeri fortunati per il gioco del lotto. Prevedevano pronostici personalizzati per le diverse categorie di lettori (per uomini, donne, bambini, mariti, etc.) ed erano caratterizzati da semplici vignette. Furono inventati intorno alla metà del XIX secolo dal tipografo Giuseppe Pennaroli di Fiorenzuola d’Arda e distribuiti ai venditori ambulanti che li raccoglievano in una cassetta ed estratti da un pappagallino.

Bigliettino "Pianeta della Fortuna"

Questi bigliettini venivano visti dalle classi meno abbienti come una sorta di riscatto, la possibilità di "un’altra vita", la speranza di un futuro migliore, l’aspirazione al benessere e ad una sorta di giustizia sociale, fornita dalla previsione scritta in cui bigliettini colorati che, non a caso, rispecchiavano le aspettative delle classi subalterne. Amore, ricchezza, fortuna erano previsioni per tutti e la credere in forniva alla gente comune la credenza in un riscatto sociale.

Locandina mostra 

A tal proposito l’antropologo siciliano Antonino Uccello nell’introduzione alla "Mostra di documenti originali della pubblicazione I pianeti della fortuna. Canzoni e vignette popolari dell'antica tipografia G. Pennaroli di Fiorenzuola d'Arda" del 1975 scrive: «Molti di noi hanno forse avuto “indovinata la ventura” da uno di questi foglietti- pianeti coloratissimi illustrati da una rozza vignetta che a noi ragazzi qualche volta è capitato di prendere dal becco di un pappagallo portato in giro in una gabbietta da un ometto che faceva il mestiere di vagabondo. Questi “foglietti” hanno rappresentato una sorta di fata morgana, la vita altra cui le classi subalterne hanno sempre aspirato. L’oracolo racchiuso in questi “fogli” protrae nel tempo la segreta speranza dei poveri e degli sfruttati che possono trovare soddisfatta la loro aspirazione al benessere e alla giustizia sociale solo nella rappresentazione del sogno e della rappresentazione fantastica…”. 

FONTE: "Per le feste arriva ancora l’indovina-ventura col pappagallo" di Nello Blancato, pubblicato il 6 Luglio 2020 sul sito www. alazzolo-acreide-siracusa; www.casamuseo.it; FONTI ORALI. (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

 

domenica 1 maggio 2022

U pani di “Santruscianniru”- il pane antropomorfo offerto al Santo patrono di Barrafranca

Altare di sant'Alessandro, patrono di Barrafranca 
Da secoli Barrafranca (EN) il 03 maggio onora e festeggia il patrono Sant'Alessandro, attraverso riti e tradizioni che anno un sapore arcaico. 

Dai fedeli barresi Sant'Alessandro è considerato PATRONO poiché si ritiene possa intercedere presso Dio in favore della comunità; PROTETTORE in quanto ha il potere di proteggere da calamità naturali e GUARITORE nel senso che guarisce o difende dai mali corporali. Per queste sue doti è oggetto di grande devozione. 

Pane antropomorfo a figura intera
Una caratteristica della devozione al Santo è l’offerta del pane, conosciuto come “U pani di Santruscianniru". Non si tratta di un semplice pane ma di un ex-voto, ossia di un oggetto materiale, nel caso specifico il pane, offerto in cambio di una grazia ricevuta. I fedeli stringono un patto con il Santo: offrire devozione e ricevere la grazia. In questo modo l’ex-voto custodisce e rende visibile la richiesta.

Pane antropomorfo a forma di testa
E’ dal carattere economico-agrario della società siciliana, legata alla terra e di conseguenza alle alternanze delle stagioni, che trae origine la pratica devozionale del pane. «Nelle culture agricole e pastorali, ove la vita stessa della comunità dipende dalla quantità e qualità del raccolto, dal benessere degli armenti, questo fatto si manifesta con particolare evidenza.» Era inevitabile che in quelle società che fondavano la loro economia sulla raccolta di cereali, il fluire del tempo e l’avvicendamento tra tempi sacri e tempi profani, si articolavano in relazione ai periodi della semina, del germoglio primaverile e del raccolto. Che cosa poter offrire al proprio Santo patrono, eletto come protettore sia delle genti che delle messi (il simulacro di Sant'Alessandro porta sulla sedia papale delle spighe intrecciate) se non il bene più prezioso: il pane. Non si tratta del consueto pane, del pane di tutti i giorni, è un pane particolare, è il pane della festa. Proprio questa connotazione gli conferisce una particolarità, una sacralità, che supera le barriere spazio-temporali, per proiettarsi nella dimensione del divino. 
Pane antropomorfo a forma di mano
"E’ u pani da festa. E’ u pani binidittu!". Questo ripetono gli anziani quando si chiede loro del valore che per loro aveva il pane quando veniva offerto ai Santi e consumato durante le feste. Il pane della festa è riconoscibile per il particolare impasto e la particolare modellazione, per quella "forma diversa", che ne rimarca la dimensione del tempo festivo rispetto alla festa. Quel particolare pane, preparato e consumato in una determinata occasione rituale, diventa segno imprescindibile quella festa.
Pane antropomorfo a forma di gamba
Il pane di Santruscianniru è preparato con farina di frumento, sale, acqua, lievito e impastato a lungo, affinché la pasta diventi dura e compatta. In seguito è modellato in modo tale da conferirgli le forma desiderata, che richiamano parti del corpo o l’intera persona, in base alla richiesta di guarigione fatta dal devoto: si possono trovare pani a forma di gamba, di testa, di mano, di mammella, ecc. Prima di essere infornato viene spennellato con uovo sbattuto. La consegna del pane è preceduta un rituale ben preciso: prima della festa, i fedeli compiono, per nove giorni consecutivi, un viaggio penitenziale presso la chiesa Maria Ss della Stella. Poi il giorno della festa i fedeli riempiono l’altare con i pani antropomorfi n forma di parti del corpo, tibie, femore, mani o raffiguranti piccole bambole (pupidda), simboli del loro patto con il Santo. Il tutto termina con la benedizione del pane e la sua circolazione che può avvenire in chiesa, distribuito in piccolo bocconi ai fedeli come in una sorta di eucaristia, oppure portato a casa, dopo aver dato un’offerta, e conservano come un oggetto investito di proprietà apotropaiche, in quanto allontana gli influssi negativi. IL PANE DELLE FOTO è stato realizzato dal PANIFICIO BARRESI di Barrafranca (EN). 

FONTI:  Giuseppe Pitrè, Usi e  costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll., 1889; Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempo del lavoro e ritmi della festa, Meltemi Editore, Roma, 2006; http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/in-nome-del-pane-in-nome-delluomo: Ricerche di Rita Bevilacqua e fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

 




mercoledì 27 aprile 2022

“U VIAGGIU AI SANTI”- antica pratica devozionale cristiana


Una delle tante pratiche cristiane, antropologicamente interessanti, per capire la religiosità popolare è il cosiddetto " Viaggiu ai Santi", ossia il pellegrinaggio compiuto a piedi fino al luogo sacro dove poter incontrare il Santo protettore.
Il pellegrinaggio, come viaggio devozionale e penitenziale, è uno dei riti religiosi più comuni, assieme alla donazione del pane, che caratterizzano la religiosità popolare. Nella rivista "Il pellegrinaggio. Rivista internazionale di Teologia e Cultura COMMUNIO" leggiamo: «Il pellegrinaggio è un viaggio verso un centro nel quale si realizzerà l’incontro atteso e preparato dall'homo religiosus. Questo centro costituisce in maniera simbolica lo spazio della salvezza». Il mettersi in cammino è connaturato all'essere umano, anche il "viaggio a piedi verso un luogo sacro" chiamato pellegrinaggio, è una pratica che ritroviamo in tutte le religioni, antiche e moderne. Il pellegrinaggio rende sacro il tempo e lo spazio in cui si svolge. I pellegrini stessi sono sacri perché più vicini a Dio, attraverso la fatica, e più lontani dall'oikos familiare che li protegge nella vita di tutti i giorni, qui interrotta e momentaneamente abbandonata. Nella quotidianità, il tempo trascorre come ritmo continuo nella successione dei giorni e delle notti, delle settimane, degli anni. In questo tempo, ci sono degli stacchi derivanti dalla celebrazione di un rituale festivo. Questo, a sua volta, richiede particolari usi: l’andare a piedi anche scalzi, procedere in ginocchio fino agli altari o addirittura, percorrere gli ultimi metri che ci separano dal Santo strisciando per terra la lingua.
La motivazione di questo "andare" è quella dell’attesa di un incontro con chi, superando le normali categorie della materialità, possa cambiare la situazione attuale e al quale si chiede la soluzione di un problema che, un essere materiale, non può risolvere. Da ciò nasce la ricerca di un essere invisibile, spirituale che possa modificare le attuali connotazioni materiali. E chi meglio dei Santi, considerati gli intercessori presso Cristo, possono assolvere tale compito. Così, di fronte a una situazione di cui non si è in grado di affrontare o risolvere, s’intraprende, per nove giorni, il "viaggio" che, allontanando dal proprio spazio e tempo materiali, avvicina e immette in categorie spazio temporali in cui il "pellegrino" si sente più vicino alla spiritualità e gli permette di chiedere al Santo, in questo caso al "suo Santo patrono", la grazia di guarigione dei mali corporali.
Di là dai pellegrinaggi definiti maggiori (Gerusalemme, Santiago di Compostela, Roma, Canterbury, San Michele Arcangelo in Puglia, …), vi è una miriade di pellegrinaggi definiti a "corto raggio" ossia a luoghi e siti vicini alla zona del pellegrino. Stiamo parlando di quello che nella cultura agro- pastorale siciliana è conosciuto come "U viaggiu ai Santi". In occasione di qualche grave pericolo, o per chiedere la guarigione da una malattia o una grazia, i fedeli chiedono l’aiuto del Santo cui sono legati e, usciti dal pericolo, si compie la promessa recandosi presso un santuario dedicato a quel santo. Si ripaga, in questo modo, il protettore col sacrificio del viaggio e con la testimonianza personale della grazia ricevuta. C’è chi, poi, compie un "viaggio di richiesta", ossia per chiedere una grazia, una benedizione, in attesa che il Santo la esaudisca. Giunti alla meta, dopo una preghiera e la consegna degli ex voto, il pellegrino ritorna a casa, portando con sé candele, immagini sacre o altro. Questi cimeli però devono essere benedetti mediante lo strofinamento sul simulacro, attribuendo così a quell’oggetto benedetto un carattere taumaturgico, di protezione ai mali della vita.

FONTI: Gabriele Tardio Le credenziali, le insegne pellegrinali e i "ricordi" del pellegrinaggio garganico, Edizioni SMiL, Testi di storia e tradizioni popolari; AA.VV. Il pellegrinaggio. Rivista internazionale di Teologia e Cultura COMMUNIO, numero 153, maggio-giugno 1997, Jaca Book; Fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

mercoledì 9 marzo 2022

I VIRGINEDDI- antica pratica devozionale a San Giuseppe

Un’antica pratica devozionale che si svolgeva a Barrafranca (EN) era quella dei VIRGINEDDI. In realtà tale pratica è presente in molti paesi della Sicilia e si svolge in occasione della festa del patriarca San Giuseppe (le tavolate stesse sono chiamate "di virgineddi"): vedi Enna, Catenanuova (EN), Regalbuto (EN), Lascari (PA), Alimena (PA), Motta Sant’Anastasia (CT), Castel di Lucio (ME), tanto per citarne alcuni. L’origine di questa pratica si perde nel tempo e risale al passato agricolo-rurale della società. Si tratta di una sorta di ex voto al Santo patriarca, San Giuseppe, protettore dei poveri, degli orfani e delle ragazze nubili. Date le condizioni d’indigenza generalizzata in cui anticamente si trovava la gente, si capisce come la preparazione della tavola a San Giuseppe era un vero sacrificio poiché si offriva agli altri la quantità di cibo sufficiente a sfamare per intere settimane tutta la famiglia.

Tavola di San Giuseppe

La tavola porta a compimento un voto per grazia ricevuta, chiesto per se o per i propri cari, ma la sua realizzazione è frutto di una collaborazione sociale ampia, confermandone l’identità e rinsaldandone i legami.  C’era anche chi prometteva di realizzare la tavola chiedendo di casa in casa o prodotti alimentari oppure offerte in denaro (secondo un’usanza ormai del tutto abbandonata). Attraverso l’affermazione del diritto-dovere di chiedere e di dare, il devoto (in genere erano le donne) dimostrava al Santo la sua gratitudine per la grazia ricevuta, riaffermando il diritto di tutti alla sopravvivenza e ravvivando vincoli essenziali di solidarietà. Infatti, le "tavolate" (così come sono chiamate a Barrafranca) erano organizzate dalla famiglia, coadiuvata dalla spontanea iniziativa di altri nuclei familiari. C’era anche chi realizzava la tavola a proprie spese con enorme sacrificio, anche se erano  bene accette le eventuali offerte in natura o in denaro. L’organizzazione seguiva una regola base: promessa di realizzare una o più tavole; le spese per la loro realizzazione dovevano gravare sulla famiglia organizzatrice, anche se c’era chi, nella promessa, decideva di andare a chiedere ai vicini un’offerta; scelta dei personaggi che potevano essere figuranti la Santa famiglia: Maria, Giuseppe e Gesù Bambino, oppure giovani adolescenti, i Virgineddi: comunque dovevano far parte di ceti poveri o indigenti; la preparazione delle pietanze che variavano da 19 a un numero non definito, secondo la "promessa" fatta; la preparazione delle pietanze e l’allestimento della tavola doveva avvenire grazie al contributo di amici o parenti. Lo stesso termine VIRGINEDDI ci dà già l’idea di quanto fosse radicato nella religiosità popolare il legame spirituale non solo con il Patriarca Giuseppe, che tra i tanti patronati ha anche quello di essere protettore delle vergini, ma con la Santa Famiglia e Maria in particolare. Come Giuseppe accolse e aiutò la giovane "vergine e madre Maria", così i devoti, accogliendo nelle loro tavole le giovani donne vergini e indigenti, chiedono per loro aiuto e protezione.  Ritornando alla pratica devozionale, essa si svolgeva il 19 marzo o un qualsiasi mercoledì (giorno dedicato al Santo) del mese di Marzo.  Consisteva in un invito a pranzo di giovani ragazze indigenti e vergini, ossia non sposate. Difatti le ragazze dovevano avere un’età inferiore ai 18 anni. "L’omu di vintuttu e a fimmina di diciuttu" sentenziava un antico proverbio siciliano, marcando come l’età da marito oscillava intorno ai diciotto anni. Le giovani che dovevano partecipare alla "tavola" (potevano essere tre come tre sono i personaggi della Santa Famiglia o un numero non definito) dovevano essere vestite di bianco, simbolo di purezza e dovevano digiunare dalla mattina fino a pranzo. Fino al 1970, anni in cui la chiesa di San Giuseppe fu chiusa al culto, la signora che aveva fatto l’ex -voto e le ragazze-virgineddi andavano ad assistere alla messa dell’aurora nella chiesa di san Giuseppe (in seguito si andava alla chiesa di San Francesco).

Particolare tavola di San Giuseppe

Terminata la funzione, andavano a casa della signora per sedersi alla tavola imbandita in onore di San Giuseppe a mangiare un lauto pasto: la "pasta di san Giuseppe" un minestrone di lasagne insaporito con finocchietto selvatico, broccoletto, chiamato taghiallassu, e un mix di legumi: ceci, lenticchie e fagioli; frittate di verdure, come tagghiallassu finocchietto selvatico, spinaci, brucculu (cavolfiore) o semplici frittate di uova e pane grattatto, polpette di patate, uova sode su cui erano inseriti, mediante stecchini, olive nere, chiamati munachiddi, (la carne era proibita, poiché si era in Quaresima) e i dolci come pagnuccata, pasta siringata, sfingi, armuzzi santi, cassateddi, crispelle di riso, cannoli con crema e ricotta, 'mbanata cu a ghiacciata (pan di spagna con sopra la glassa) e altro. A fine pasto venivano dati finocchi e arance. 

Pane di San Giuseppe

Dopo aver pranzato, le giovani verginelle venivano congedate, dando loro il "pane di san Giuseppe": un pane particolare realizzato in varie forme, reso lucido dal bianco dell’uovo e cosparso di semi di papavero che in dialetto sono chiamati "girgiullina". C’era chi dava anche del denaro, tutto dipendeva dal tipo di promessa fatta al Santo. Con gli anni la tradizione ha subito alcune modifiche: come la scomparsa dell’abito bianco delle ragazze, che potevamo vestirsi con abiti eleganti; il consumo di pietanze diverse a quelle tradizionali; il ricevere in dono del denaro. Purtroppo i cambiamenti sociali della società barrese hanno portato alla definitiva scomparsa di questa pratica, lasciando, quasi inalterata, l’allestimento della tavola con i tre personaggi della Santa famiglia: Giuseppe, Maria e il Bambino.

FONTI: Ricerche di Rita Bevilacqua e fonti orali. TESTI: Fatima Giallombardo, La festa di San Giuseppe in Sicilia, Fondazione Ignazio Buttitta, 2006; Claudio Paterna, PERSISTENZA ARCAICHE NELL’ENTROTERRA, Novograf, 2010. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA