sabato 29 giugno 2019

Il “rito della chiave” nel giorno in cui si festeggiano i santi Pietro e Paolo

Posizione della chiave durante il rito 

La devozione popolare contadina ha sempre cercato aiuto e consiglio presso i Santi, mediante arcani “rituali” atti a proteggere o prevedere il futuro della propria famiglia.
Nel giorno in cui la Chiesa festeggia i santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, si svolgeva un antichissimo rituale diffuso in molte zone d'Italia, ma in particolare al Sud, conosciuto come il “rito della chiave”. Si eseguiva questo rito per sapere se una tal cosa sarebbe realmente accaduta in futuro. Due persone, poste una di fronte all'altra, tenevano sospesa, appoggiata solamente sui polpastrelli dei rispettivi indici della mano destra, una chiave mascolina, ossia una vecchia chiave di ferro priva di foro nella parte finale. Appena la chiave era sistemata, iniziavano a recitare per tre volte una breve formula ponendo alla fine la richiesta desiderata.
Riportiamo una delle tante versioni:
“San Pitru si, san Paulu no.
San Pitru no, san Paulu si
M'ha cunciditi sta razia sì, o no?”
e mentalmente si pronunciava la richiesta. Il rito terminava con la recita di un Pater nostro e un’Ave Maria.
Se la chiave iniziava a muoversi, girando tra le dita, la risposta era "sì". Se rimaneva ferma significava "no". Il simbolismo è chiaro: quando al chiave si muove vuol dire che apre, che da l’accesso a qualcosa, in questo caso alla grazia richiesta. Se sta ferma, invece, non produce cambiamento.
Secondo alcune ricerche da me condotte questo rito si svolgeva anche a Barrafranca, non solo per la festa di san Pietro e Paolo, anche per la festa di san Giovanni Battista, il 24 giugno, invocando al posto di san Paolo, San Giovanni (la cui figura è spesso legata alla magia popolare). Chi non era capace, poteva recarsi da una “guaritrice di campagna” o veggente la quale avrebbe svolto lei stessa il rito. 
Perchè proprio la chiave? Essa è il simbolo della speciale missione apostolica di Pietro e del potere conferitogli direttamente da Gesù. Il simbolismo della chiave è legato anche al mistero. Quindi nell'immaginario popolare le vecchie chiavi di ferro che chiudevano le toppe delle case, assunsero un valore magico, profetico, di aiuto al raggiungimento del benessere famigliare. In alcuni casi, le chiavi ebbero un valore apotropaico e venivano appese nelle case e nelle stalle come deterrente all'influsso di spiriti maligni. (La foto è solo indicativa, in quanto la chiave non è mascolina.)

Fonti: pagina facebook "Preghiere e scongiuri popolari siciliani"; fonti orali degli anziani del mio paese) (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

lunedì 24 giugno 2019

"Veliero di San Giovanni"- antico rito dell’albume dell’uovo nella notte di san Giovanni



"Veliero di san Giovanni"
Tanti sono i riti che anticamente si svolgevano la notte di san Giovanni Battista, la notte tra il 23 e il 24 giugno. Anticamente nelle campagne si celebrava un rito molto particolare che serviva per capire come sarebbe stato il tempo o come sarebbe andato il raccolto o come sarebbe stato il destino dei membri della propria famiglia. Si tratta di quella tradizione “dell’albume dell’uovo” nota come "Veliero di San Giovanni”. La tradizione contadina da sempre si è servita di rituali alla cui base vi sono credenze popolari, leggende o storie di Santi. Spesso si utilizzavano questi“strumenti” per capire come sarebbero state le condizioni meteorologiche, indicatore molto importante per il buon raccolto nei campi e dunque il sostentamento delle famiglie. Si prendeva un vaso di vetro trasparente da 2-3 litri e si riempiva d'acqua per circa i 2/3. Si rompeva un uovo fresco, e con estrema cautela si faceva colare dentro il vaso d'acqua il solo albume, stando attenti a non farci scivolare dentro il tuorlo. Dopodiché si portava il vaso d'acqua nell'orto, o su un davanzale della finestra, si lasciava aperto e senza coperchio per tutta la notte affinché la rugiada facesse il suo effetto. 
Particolare del "Veliero di san Giovanni"
Al mattino, una volta alzato il sole, si poteva riportare in casa il vaso, e osservare la forma che assumeva, con le due estremità che si alzavano verso la superficie dell'acqua assottigliandosi dando all'agglomerato una forma di veliero (da qui il nome). A volte si formavano delle vere e proprie vele anche, che erano presagio di estate piovosa, mentre se s’intravedeva una sottospecie di soggetto umano (San Giovanni) allora l'estate sarebbe stata serena e assolata.
Perché si forma il cosiddetto veliero? Il fenomeno è dovuto semplicemente alla diversa temperatura della notte (più fresca) che permette all'albume di rapprendersi formando il caratteristico veliero ma anche al fatto che l’albume ha una densità maggiore dell’acqua e tende ad affondare. Quando l’acqua fredda si riscalda grazie al calore che assorbe la brocca dalla terra o dal davanzale su cui è posta, tende a risalire portando con sé anche l’albume. Si formano così le vele. Le forma che l’albume dell'uovo avrà assunto all'interno della bottiglia avrà vita breve e già nel primo pomeriggio si scioglieranno e si raggrumeranno in modo informe verso il collo della bottiglia.
In alcuni paesi siciliani questo rito, conosciuto come "Barca di san Pietro" si celebrava la notte tra il 28 e il 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo. (Nelle foto il mio "Veliero di san Giovanni 2019").

Fonti: sito web fattoalatina.it; fonti orali degli anziani del mio paese. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

San Giovanni Battista e alcune tradizioni barresi

Statuetta lignea del fonte battesimale- chiesa Maria SS della Stella 
San Giovanni Battista è considerato dalla Chiesa "il più grande fra i profeti, perché additò l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo". E' considerato l'ultimo profeta del Vecchio Testamento e il primo discepolo di Gesù, perché gli rese testimonianza ancora in vita.
San Giovanni è l'unico santo, assieme alla Madonna e a Gesù, del quale si celebra la nascita terrena (in genere viene celebrata la morte terrena, intesa come nascita celeste). La data viene calcolata in base a quella ipotetica di Gesù: se questi nacque il 25 dicembre, quella di Giovanni doveva essere celebrata sei mesi prima, come era stato annunziato dall'angelo Gabriele a Maria.
Il nome Giovanni deriva dall'ebraico "Jòhànàn" che significa "Dono di Dio".
La festa di san Giovanni coincide con il "solstizio d'estate" un rito di passaggio che porta la terra dal predominio lunare (tipico della stagione invernale) a quello solare, nella notte più breve dell'anno.
In Sicilia san Giovanni è patrono dei compari e delle comari.

A Barrafranca (EN) il Santo veniva festeggiato attraverso pratiche popolari, che si riscontrano anche in altri paesi della Sicilia.
Lavuriddu

Fino a qualche decennio fa c'era l'usanza di fare una particolare forma di questua: la mattina del 24 i ragazzini con un piatto di "lavuriddu" (chicchi di grano fatti germogliare al buio, i cui filamenti venivano legati con nastrini colorati), andavano di porta in porta da parenti e amici per farsi tagliare in testa un ciuffo di "lavuriddu" in senso ben augurale. Dopo il ragazzino otteneva in dono pochi spiccioli o un santino. Alcune ragazze, invece, tagliavano alcuni germogli, li intrecciavano, li legavano con nastrini colorati e li regalavano all'amica del cuore, che doveva conservarli, diventando così comari per tutta la vita.
Il rituale ha un'origine pagana, dato l'utilizzo del  "lavuriddu", che altro non è che "il giardino di Adone", divinità greca  del risveglio della natura, simboleggiato dal chicco di grano che, lasciato maturare al buio, rinasce a nuova vita, germogliando in nuovi filamenti. Nell'antica Grecia la donne lo preparavano in onore del giovane dio, i cui festeggiamenti avvenivano sia il primo giorno di primavera che a inizio estate. Da qui l'utilizzo di questa pratica pagana associata a san Giovanni, posto a guardia del "solstizio estivo", ossia del passaggio dalle tenebre alla luce.
Altra tradizione era "u cumbari e sangiuvanni", ossia la pratica del comparatico che si stringe fra due persone che diventano compari.
Il rito aveva una particolare formula:
"E cumpari a sangiuvanni
sa cc'avimmu nni spartimmu
e s'avimmu 'na favuzza
nn'a spartimmu menza l'unu.
Cumpà, cchi vuliti: risu o ossa?
Ossa!
E nni jammu nni la fossa!
Cumpà, cchi vuliti: risu o ossa?
Risu!
E nni jammu 'n Paradisu!
Cumpari simmu e cumpa riristammu… sputa ‘nterra!
Da quel momento si diventava compari per tutta la vita.
Altro modo per diventare comari, soprattutto tra le donne, era  il rito del capello. Le future comari si strappavano un capello e li intrecciavano insieme facendoli confondere, poi li buttavano via dicendo 
"Pilu piliddu vattinni o mari 
mi saluti a ma cummari 
mi saluti a cchiù bedda 
cu la cruna e la zagaredda".
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA


domenica 23 giugno 2019

Solennità del CORPUS DOMINI

Particolare altarino chiesa Itria- Barrafranca 
La solennità del “Corpus Domini” è una festa della Chiesa cattolica, che si celebra la domenica successiva alla solennità della Santissima Trinità. In occasione del Corpus Domini si porta in processione, racchiusa in un Ostensorio dorato sottostante un baldacchino, un’Ostia consacrata ed esposta alla pubblica adorazione. Il papa Urbano IV, con bolla “Transiturus de hoc mundo” dell’11 agosto 1264, da Orvieto estese la solennità a tutta la Chiesa. All'anno precedente si fa risalire tradizionalmente anche il Miracolo eucaristico di Bolsena.
In Sicilia e in altre parti d’Italia, la ricorrenza è festeggiata con particolari pratiche devozionali, come la preparazione di altari, atti ad accogliere “l’Ostia Consacrata”. 
A Barrafranca (EN) la festa ha un’origine antica. Prima della riforma del Concilio Vaticano II (1962-1965) la festa durava otto giorni e ogni chiesa organizzava la propria processione. 
Altarino via Ciulla Barrafranca
Ogni quartiere preparava, per strada, degli altarini, realizzati appendendo al muro esterno della casa, una coperta di seta o di ciniglia, riccamente lavorata, su cui sopra era appesa un’immagine sacra. Gli altarini erano arricchiti con immagine sacre, fiori, candele, spighe o pane e vino. Il simbolismo è chiaro: l’immagine sacra rappresenta l’Ostia consacrata, le candele simboleggiano “Cristo luce del mondo“, le piante e fiori sono degli arricchimenti estetici, come pure le coperte e le lenzuola, il pane e il vino simboleggiano il corpo e il sangue di Cristo. Nelle strade adiacenti erano appese coperte o lenzuola, che facevano parte del corredo di matrimonio delle donne barresi. Al passaggio della processione, la gente dalle finestre e dai balconi buttava petali di rose (per questo era chiamato “U Signuri di rosi”), in segno di devozione al SS. Sacramento. Anticamente ogni chiesa organizzava una processione con a capo l’Ostensorio, retto dal sacerdote, posto sotto un ombrello (retto dalla personalità più in vista del paese) e protetto da un baldacchino (le aste erano tenute dai “galantuomini” del paese) e seguita dalla banda musicale. 
Processione anno 2016- Barrafranca 
La processione procedeva per le vie del quartiere, fermandosi dinanzi ai diversi altarini. Al momento dell’elevazione dell’Ostensorio, la banda musicale suonava il canto “T’adoriam Ostia Divina”, i fedeli intonavano inni sacri e venivano sparati i mortaretti. Era uno scintillio di colori, di profumi, di gioia, di fede nei confronti di quell’ Ostia consacrata, simbolo del Corpo di Cristo, portata in giro per le strade del paese. I più anziani ricordano che la processione più suggestiva era quella organizzata dai frati francescani, che partiva dalla chiesa di san Francesco ed era preceduta da un gruppo di bambini chiamati i “paggetti di sant’Antonio”, i quali, al momento della benedizione, sguainavano le spade. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

mercoledì 12 giugno 2019

Le origini dell'antico detto "Troppa grazia Sant’Antonio!"

In occasione dei festeggiamenti in onore di sant'Antonio di Padova, che si svolgono il 13 giugno, vogliamo riproporre un detto molto antico, che recita:“Troppa grazia Sant'Antonio!”. 
Usato solitamente quando si vuole indicare che si sta ricevendo più di quanto si debba ricevere, è un detto molto conosciuto in tutta Italia. Per quanto riguarda i fatti che generano tal detto, sono praticamente identiche in tutte le regioni italiane, con le solo varianti per quanto riguarda i protagonisti della vicenda. In Sicilia il detto nasce, secondo alcune tradizioni popolari, da una leggenda che ha come protagonista un contadino di Poggioreale (TP), dove il santo patrono è proprio Sant'Antonio di Padova.
Si racconta che contadino povero, stanco e con la schiena a pezzi per il troppo lavoro, aveva bisogno di un asino per poterlo aiutare a lavorare nei campi. 
Andò dal proprio “padrone” e gli chiese se potesse aiutarlo. Il “padrone”, persona molto sensibile e generosa, gli regalò un mulo. Il contadino gliene fu grato, lo portò nella sua terra e provò a cavalcarlo. Il mulo, però, era molto alto e il contadino non riuscì a salirci sopra, inoltre, la vecchiaia e il lavoro duro non gli permettevano di fare grandi sforzi. Iniziò a piangere davanti alla stalla e lo vide un prete che, dopo aver ascoltato la storia, gli disse che per ricevere la grazia avrebbe dovuto pregare Sant'Antonio. Il contadino iniziò a pregare il santo ma neanche le preghiere lo aiutavano, provava e riprovava ma il mulo non riusciva proprio a cavalcarlo. Pregò con lui anche la moglie ed i vicini e, giusto quando tutti erano attorno a lui congregati, il contadino prese la rincorsa per provare a salire sul mulo gridando: “Sant'Antonio fammi sta grazia”. Detto questo fece un salto altissimo, ma così alto, che superò il mulo e cadde dall'altra parte della bestia. A quel punto urlò: “Troppa grazia Sant'Antonio! (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

domenica 9 giugno 2019

Il 9 giugno 1979 moriva monsignor Giovanni Cravotta



Mons. Giovanni Cravotta
In occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa di mons. Giovanni Cravotta, parroco della Chiesa Madre di Barrafranca (EN) dal 1948 al 1978, vogliamo ricordarne la figura di uomo e di prete. Figura di spicco non solo della chiesa, ma dell’intera società barrese dal dopoguerra agli anni ’70, fu amato e odiato, osannato e avversato, come succede a tutti quei personaggi che si espongono in prima persona.
Giovanni Cravotta nacque a Barrafranca, il 07/12/1925 da Luigi e Marianna Tummino. Dopo aver completato gli studi elementari a Barrafranca, entrò in seminario a Piazza Armerina. «Erano davvero tempi duri e non era facile sottrarre un figlio ai lavori dei campi e avviarlo al sacerdozio» scrive il prof. Diego Aleo in un suo personale ricordo e pubblicato in piccolo opuscolo dall’Associazione “Il Sorriso” di Barrafranca (EN). «Molti seminaristi diventavano sacerdoti – continua il prof. Aleo- con il sostegno della comunità ed essi si sentivano davvero parte di essa. Una comunità povera ma generosa e rispettosa dei valori fondanti la società cristiana e occidentale». Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1948 da mons. Antonio Cararella, vescovo di Piazza Armerina. Riportiamo il ricordo di quei momenti vissuti da Diego Aleo «Quel giorno di giugno caldo e assolato tra la polvere infiammata dal sole, si sparse sopra le case il suono della banda e si sentì lo scoppio dei mortaretti. Era festa? “Arriva padre Cravotta da Piazza Armerina e celebra la prima messa in Matrice”. Era questa la notizia che si diffondeva di strada in strada… La chiesa era stracolma di persone e dal pulpito, allora collocato a metà navata centrale, un giovane in paramenti sacri predicava e piangeva. Era la sua prima messa nel suo paese natio e nella sua comunità parrocchiale. Un pubblico attento e commosso ascoltava in silenzio le sue parole e accoglieva il giovane come il suo nuovo pastore». 
Padre Cravotta alle elementari col maestro Vittorio Guarneri
Poco tempo dopo fu nominato Vicario Cooperatore prima e Parroco della Chiesa Madre di Barrafranca che resse dal 1948 al 1978. Nominato parroco, con la valida collaborazione del giovane Cappellano padre Bonfirraro, la parrocchia diventò veramente un centro attivo di evangelizzazione.
«Erano gli anni del dopoguerra- scrive Diego Aleo- della ricostruzione, della passione civile, politica e religiosa. La Chiesa si era schierata da una parte e appoggiava la D.C. rinata dalle ceneri del partito popolare di don L. Sturzo. L’eco del rinnovamento giunse anche a Barrafranca e il protagonista in senso assoluto di questo periodo della vita del paese era padre Cravotta… Pio XII aveva scomunicato il comunismo e la battaglia dei cattolici e del clero era rivolta contro di loro. Guai a professarsi comunisti, si veniva esclusi dall’amministrazione dei sacramenti. Erano ordini perentori e bisognava osservarli senza guardare in faccia a nessuno. E tanti in massa si allontanarono dalla Chiesa, mantenendo e conservando e alimentando nel loro cuore la fede dei loro padri… Padre Cravotta era in prima fila e dai piccoli balconi della casa canonica dialogava e rispondeva all’esponente principale della parte avversa. “Padre Cravotta fa comizi” e il popolo si schierava. C’era chi lo difendeva e c’era chi lo osteggiava e lo condannava e lo odiava». 
Raduno O.V.E.
Nel 1951 fu Rettore della chiesa del feudo Geraci e assistente GIAC “Gioventù Italiana di Azione Cattolica”, di cui una sezione fu aperta nei locali della Chiesa Madre.
Dal 1951 al 1952 fu insegnante presso il seminario di Piazza Armerina.
Dal 1961 al 1972 fu Vicario Foraneo della chiesa barrese.
Si dedicò con continuità alle vocazioni ecclesiastiche e al pre-seminario, tanto che divenne dal 1968 Coordinatore Vocazionale e Assistente famiglie del clero.
Costituì la S. Vincenzo con l’assistenza domiciliare ai poveri, agli ammalati e agli anziani.
Nel 1967 si insedirono a Barrafranca le Orsoline, le figlie di S. Angela Merici, di cui divenne il primo superiore diocesano. Sempre nel 1967 fu Assistente in Diocesi e Delegato Vescovile per le Religiose.
Fece costruire la sede delle Orsoline nel Viale Signore Ritrovato, “a Circumvallazione”, oggi chiamata “Casa del Sacerdote”. L’obiettivo era di accogliere i sacerdoti soli o malati. Cosa che non riuscì a fare per la scomparsa del suo artefice, anche se le Orsoline hanno fatto del loro meglio, affinché la casa non rimanesse inutilizzata.
Padre Cravotta
Un’improvvisa leucemia lo condurrà alla morte, avvenuta a Palermo il 9 giugno 1978.
Per onor di cronaca, padre Cravotta è ricordato per aver tentato di modificare u TRUNU, ossia la macchina processionale con cui viene portato ìn processione il SS. Crocifisso, la sera del Venerdì Santo.  Fece costruire un nuovo “Trunu” con l’asta più alta, telescopica, che si abbassava e si sollevava secondo il bisogno. Alleggerì le baiarde e dotò il meccanismo di ruote in modo tale che potesse procedere da solo, specie durante le fermate per recitare la via crucis. Questo nuovo sistema non fu accettato dal popolo barrese, tanto che quell’anno, il 1970, la processione non si fece.
(Foto: Salvatore Licata e Diego Aleo. Fonti: Salvatore Licata, Accade oggi...; Pino Giuliana, La chiesa di Piazza Armerina nel Novecento, 2010; Diego Aleo, Padre Cravotta. Dimenticare non si può, 2003 )

Rita Bevilacqua 


lunedì 3 giugno 2019

“Hannu a passari sti vintinovi anni, unnici misi e vintinovi jorna!”


Chi lo ricorda? Chi non ha mai detto, sospirando, “Hannu a passari sti vintinovi anni, unnici misi e vintinovi jorna!”. Con questo detto, che riprende gli ultimi versi di un antico canto siciliano di carcerati conosciuto come “Buttana di to mà!”, il siciliano intende ironizzare su se stesso, quando si trova in una condizione che non consente fuga, destinata però a finire. Prima o poi il giorno tanto desiderato arriverà!. L’attesa è lunga e il conto alla rovescia aiuta a lenire la sofferenza dell’attesa.

Il detto lo ritroviamo anche nel libro “Occhio di Capra” di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1984. Il canto del carcerato è divenuto famoso grazie alla splendida voce di Rosa Ballistreri. 
La traccia “Buttana di to mà!” (così conosciuto il canto) si trova nell’album “Noi siamo nell'inferno carcerati” inciso dalla Ballistreri nel 1974. 
Una persona è stata condannata a trent’anni di carcere. Dopo solo un giorno trascorso in cella, inizia a contare il tempo che ancora gli rimane da vivere in quel luogo, cantando questa canzone:
Buttana di to mà ‘ngalera sugnu
Senza fari un millesimu di dannu
Tutti l’amici mia cuntenti foru
Quannu carzarateddu mi purtaru
Tutti lì amici mia ‘nfami e carogna
Chiddu ca si manciau la castagna
Quannu arristaru a mia era ‘nuccenti
Era lu jornu di tutti li santi
Nun sugnu mortu no! Su vivu ancora
Ogliu ci nn’è e la lampa ancora adduma
Si voli Diu e nesciu di sta tana
Risposta cci haju a dari a li ‘nfamuna
Hannu a passari sti vintinov’anni
Unnici misi e vintinovi jorna!.
(Puttana di tua madre in galera sono
Senza fare un minimo di danno
Tutti gli amici miei contenti erano
Quando in galera mi portavano
Tutti gli amici miei infami e carogne
Quello che si è mangiata la castagna
Quando mi hanno arrestato ero innocente
Era il giorno di tutti i Santi
Non sono morto no!! Sono vivo ancora
L’olio c’è, e la lampada ancora accende!
Se Dio vuole ed esco da questo buco
Risposta devo dare agli infami
Dovranno passare questi ventinove anni
Undici mesi e ventinove giorni!).

Il canto si apre con una imprecazione che il siciliano pronuncia contro chi gli ha recato danno, causandogli lo stato di malessere in cui si trova Egli si considera innocente, ma qualche amico infame l'ha tradito.  Il canto continua con la speranza che Si voli Diu e nesciu di sta tana, il carcerato darà risposta ai suoi nemici. Il tutto si chiude con il conto alla rovescia dei giorni che ancora dovrà scontare, con la consapevolezza che  quella vita prima o poi finirà. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITI POPOLARI