giovedì 13 luglio 2023

L’antica pratica devozionale di pregare rivolti verso oriente

Foto del web

Alcune ricerche condotte a Barrafranca (EN) sulle pratiche devozionali dedicate a san Giuseppe e a sant’Alessandro, spesso mi sono imbattuta nella pratica religiosa di pregare inginocchiati e rivolti con il viso verso l’oriente. E non solo. Alcuni anziani ricordano che durante il lavoro dei campi, al rintocco delle campane all’ora terza, sesta, nona, era costume fermarsi, inginocchiarsi con il viso rivolto verso oriente e si recitavano le preghiere. Da qui la domanda: da dove deriva quest’antica pratica?

La preghiera è una delle pratiche religiose più diffuse. Non c’è stato e non c’è credo religioso che non pratichi l’atto di rivolgersi con parole al divino, in un costante rapporto con la divinità. Il più antico modo di pregare era quello di rivolgersi verso oriente.

Come afferma il liturgista Mons. Klaus Gamber nell’orientamento della preghiera liturgia, saggio apparso sul periodico “Notizie n° 116”, l'usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, comune a ebrei e gentili. I cristiani l'adottarono ben presto. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum Tertulliano scrive: “…è noto che noi si prega rivolti dalla parte d'oriente.” ((cap. XVI). Inoltre, si premura di rammentare preliminarmente la base scritturistica anche per le tre ore «canoniche» (terza, sesta e nona). Il cristiano è chiamato a iniziare e concludere le sue giornate con l'orazione, rispettando i due momenti, alba e tramonto, che Tertulliano considera di rito. Allora nelle case si indicava la direzione della preghiera a mezzo di una croce incisa nel muro. Una croce del genere è stata ritrovata a Ercolano in una camera al primo piano di una casa sepolta dall'eruzione del Vesuvio nell'anno 79. Anche Clemente Alessandrino nel VII libro dei “Stromata” parla dell’orientamento del pregante. Egli scrive: «Comunque, poiché l’oriente è immagine del giorno natale e da qual punto si diffonde la luce ‘che dalle tenebre risplendé’ la prima volta, e anche per quelli che si avvoltolando nell’ignoranza spuntò il giorno della vera ‘gnosi’, come il sole, le preghiere si facciano rivolti verso oriente all’aurora» (“Stromata” VII.7.43.6).

Nel 2008 la pubblicazione del libro “Rivolti al Signore” del sacerdote Uwe Michael Lang, riporta l’attenzione sull’importanza dell’orientamento della preghiera nella liturgia. Il libro è la traduzione dell’originale scritto da padre Lang prima in tedesco e poi in inglese, nel 2004, e contiene la prefazione dell’allora Cardinale Ratzinger, diventato Papa Benedetto XVI.

“Non vi è dubbio che, fin da tempi molto antichi, fosse naturale per i cristiani di tutto il mondo conosciuto volgersi in preghiera verso il sole nascente, ovvero verso l’est geografico. Sia nella preghiera in privato che nella preghiera liturgica i cristiani si voltavano non più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste; credevano fermamente che, quando il Signore fosse tornato nella gloria per giudicare il mondo, avrebbe radunato i suoi eletti per formare questa città celeste. Il sole nascente era considerato l’espressione appropriata di questa speranza escatologica” (Rivolti al Signore, cit., p.31).

C’è sempre qualcosa di arcano nell’antiche pratiche devozionali, scomparse ormai da decenni, e che rimangono nella mente degli anziani, il cui richiamano alle pratiche degli albori della religione è palese.

FONTI: "Notizie" periodico dell'associazione italiana Una Voce, edito dalla Sezione di Torino n° 116, 1987; Tertulliano, “Apologeticum”, introduzione e traduzione a cura di Onorato Tescari, 1951; Clemente Alessandrino, “Gli Stromati note di vera filosofia”, Edizioni paoline, 2006; Uwe Michael Lang, “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”, Cantagalli 2008; FONTI ORALI. Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA 


martedì 21 marzo 2023

"Luni santu, Marti santu…" l’antica orazione-scongiuro dei ciarmavermi siciliani.


"Ciarmavermi" (foto web)

Nel variegato panorama delle orazioni e degli scongiuri recitati dai "ciarmavermi siciliani" (tagliatore dei vermi intestinali), il più conosciuto è quello che l’antropologo siciliano Giuseppe Pitrè chiama "Scongiuro della Settimana Santa". Nel saggio "Medicina popolare siciliana" Pitrè definisce la credenza e la pratica del taglio dei vermi "verminazione" e le persone che la praticano sono chiamati "ciarmavermi”, termine che deriva da "ciarmare" ossia "affascinare, ammaliare”, individuando così l’azione di curare il male.

Nella cultura popolare contadina quando un bimbo aveva prurito nella zona anale o piangeva sempre o soffriva di mal di pancia, le mamme di una volta dicevano "Ha il verme nella pancia". La frase stava ad indicare, in modo figurato, che il dolore provato dal bambino traeva origine da parassiti intestinali, chiamati in medicina “ossiuri”. Sono dei parassiti di forma affusolata e di colore bianco/avorio diffusi soprattutto tra i più piccoli. Il primo sintomo è quello del prurito nella zona anale, associato al mal di pancia persistente.

Ossiuri (foto web)

Per le ciarmavermi siciliani la causa è "Nu scantu" ossia uno spavento improvviso. Le persone più colpite sono quelle più deboli, come i bambini e le donne. A tal proposito Pitrè scrive: <<Questi vermi hanno la loro sede in un dato posto degli intestini e si raccolgono e aggomitolano insieme in forma di ciambella, detta "cuddura di lì vermi”>>. Affinché la pratica si svolga in modo corretto, la ciarmavermi e il bambino debbono essere a digiuno. Il digiuno è una pratica comune a tutte le religioni o riti propiziatori, perché rende il corpo e l’anima puri, non contaminati da agenti esterni. Oltre all’ orazione- scongiuro, la guaritrice utilizza alcuni strumenti, come uno spicchio d’aglio, dell’olio d’oliva, una tazzina da caffè, una bacinella piena d’acqua e uno spago. La mano da utilizzare è quella sinistra perché, come scrive Giuseppe Bonomo in Scongiuri del Popolo Siciliano, <<la magia ama fare il contrario della Religione e della vita sociale. Bisogna pure tener presente che l'inversione dei gesti, delle azioni, delle parole è una delle forze della magia>>.

Ciarmavermi (foto web)

Passiamo al rito vero e proprio. Si prende una tazzina di caffè, si schiaccia all’interno uno spicchio d’aglio e si aggiunge olio d’oliva crudo. Poi si sporca un po' il bordo della tazzina e si tiene in mano. Per iniziare si fa il segno della croce, si recita il Padre Nostro e si ripete "Luni santu, Marti santu, Mircuri santu, Juvi santu, Venniri santu, Sabatu santu, a Duminica di Pasqua u vermi 'nterra casca". Al termine dell’orazione con la mano sinistra si fa il segno della croce in direzione dell’ombelico del paziente. Si prende la tazzina, si capovolge sull’ombelico e si continua con lo scongiuro. Se ci sono veramente i vermi la tazzina si attacca all’ombelico, altrimenti rimane staccata. Se i vermi non ci sono, non si attacca, si stacca subito. 

A Barrafranca (EN) la guaritrice A. B. (per la privacy citiamo solo le iniziali del nome) intervistata dalla scrivente, utilizzava un procedimento più lungo: dopo aver fatto sdraiare il paziente con la pancia scoperta, prendeva dell’olio di oliva, ciarmato per l’occasione (ossia reso atto alla guarnizione mediante particolari pratiche che solo la guaritrice conosce) e inizia con il pollice, l’indice e il medio della mano destra, uno per volta, e dà piccoli tocchi di polpastrelli unti di olio sulla pancia, partendo dall’ombelico e poi tutto attorno. Terminato il procedimento con la mano destra, si ripete il tutto con la mano sinistra. Alla fine, la guaritrice fa un segno della croce con la mano sinistra. Il rito si deve ripetere per un totale di 3 giorni. La domenica successiva la ciarmavermi fa ritornare il paziente per controllare, attraverso un altro rito, se i vermi sono veramente scomparsi. Si prende un grosso filo di cotone, che usavano le nonne per cucire, e una bacinella piena d’acqua. Si prende il filo e si misura la lunghezza del corpo del pazienta, a partire dalla punta del pollice della mano sinistra e, attraversando tutto il corpo, fino al pollice della mano destra. Si continua misurando dalla testa fino alla punta dei piedi e dal femore destro e sinistro fino alla punta dei piedi. Poi il filo veniva raccolto tra il dito indice e il dito medio della mano sinistra (le dita debbono rimanere separati) e viene tagliato a pezzetti e buttato nella bacinella piena d’acqua. Se i pezzetti vanno a fondo vuol dire che i vermi sono moti. Se alcuni pezzetti rimanevano a galla, contorcendosi, non tutti i vermi sono morti e bisogna rifare la pratica.

Ritornando allo scongiuro, l’invocazione contenuta in esso è indirizzata alla Settimana Santa che, nella sua sacralità, diventa veicolo di guarigione. <<Si invocano sette dimensioni potenti, sette entità che i questa parte dell’orazione sono caratterizzate soltanto al loro legame col tempo, col numero e col sacro>> scrive Mannella nel suo saggio "Il sussurro magico". I sette giorni della settimana nella connotazione di "santi" perdono il loro valore temporale per assumere quello della sacralità. Sempre dal Mannella apprendiamo che la cifra sette rappresenta la sintesi del tempo con il sacro: sette è la somma di tre, che rappresenta il divino e di quattro che rappresenta il tempo (quattro sono le stagioni, le fasi lunari, etc.). L’invocazione del ricordo ciclico della passione, morte e resurrezione di Cristo, della vittoria della vita sulla morte, permette al guaritore di eliminare il male. Come in tutte le pratiche popolari, anche in questa si mescolano sacro e profano, conoscenze arcaiche acquisite con una ciclicità gestuale che, per essere efficace, ha bisogno di un richiamo autorevole come il ricorso alle preghiere sacre.

FONTI: Giuseppe Pitrè, "Medicina popolare siciliana, volume unico, 1896; Roberto Martorana, L’uso della Mano Sinistra in alcuni Scongiuri popolari, pubblicato in www.academia.edu; "Verba et incantamenta carminum. Sulla medicina popolare siciliana" di Gian Mauro Sales Pandolfini, pubblicato il 1° gennaio 2018 in DIALOGHI MEDITTERRANEI, periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (TR); Pier Luigi Josè Mannella, Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2015 Studi e materiali per la storia della cultura popolare Edizione storica n. 27; fonti orali tra cui l’intervista di Rita Bevilacqua alla guaritrice A. B. di Barrafranca (EN). FOTO: pagina facebook “Preghiere e scongiuri popolari siciliani”; sito web DIALOGHI MEDITTERRANEI, periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (TR).  (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA



giovedì 30 giugno 2022

“Il pappagallino indovina ventura”

Pappagallino intovina vantura
Chi si ricorda del "Pappagallino indovina ventura" o "pappagaddinu da vintura"? Era un pappagallino che con il suo becco prelevava da una gabbietta un foglietto colorato, il fogliettino “pianeti della fortuna”, su cui era scritta la "ventura", ossia la previsione dell’avvenire o sorte a cui era destinato l’uomo. Andiamo per ordine.
Intorno agli anni 50/60 del secolo scorso, non era insolito vedere circolare nei paesi, soprattutto durante le feste e le sagre, strani forestieri con un pappagallino dentro una cassetta o gabbietta piena zeppa di bigliettini di tonalità diverse. Secondo il ricordo di alcuni anziani, a Barrafranca (EN) era una zingarella (o zingarello) che girava per le strade avvicinando le persone che incontravano o bussando a ogni casa, per offrire il loro speciale servizio: "a lettura da vintura", ossia la lettura del futuro. Con la modica somma di cinque lire o con pagamento in natura, la zingarella ti prediceva il futuro. La procedura era sempre la stessa: questa chiedeva all'interlocutore l’età, il sesso e lo stato civile e dopo la risposta apriva la gabbietta e il pappagallino con il becco estraeva un bigliettino colorato. C’era chi invece, spaventato dalla lettura del futuro, dava all'avvenente zingarella il denaro, senza farsi estrarre il bigliettino.
Bigliettino "Pianeta della Fortuna"
I bigliettini facevano parte della raccolta conosciuta come "I pianeti della fortuna". Si tratta di pubblicazioni popolari molto diffuse che riportavano su foglietti di diverso colore e di piccolo formato (cm 9x12) predizioni sul futuro e l'indicazione dei numeri fortunati per il gioco del lotto. Prevedevano pronostici personalizzati per le diverse categorie di lettori (per uomini, donne, bambini, mariti, etc.) ed erano caratterizzati da semplici vignette. Furono inventati intorno alla metà del XIX secolo dal tipografo Giuseppe Pennaroli di Fiorenzuola d’Arda e distribuiti ai venditori ambulanti che li raccoglievano in una cassetta ed estratti da un pappagallino.

Bigliettino "Pianeta della Fortuna"

Questi bigliettini venivano visti dalle classi meno abbienti come una sorta di riscatto, la possibilità di "un’altra vita", la speranza di un futuro migliore, l’aspirazione al benessere e ad una sorta di giustizia sociale, fornita dalla previsione scritta in cui bigliettini colorati che, non a caso, rispecchiavano le aspettative delle classi subalterne. Amore, ricchezza, fortuna erano previsioni per tutti e la credere in forniva alla gente comune la credenza in un riscatto sociale.

Locandina mostra 

A tal proposito l’antropologo siciliano Antonino Uccello nell’introduzione alla "Mostra di documenti originali della pubblicazione I pianeti della fortuna. Canzoni e vignette popolari dell'antica tipografia G. Pennaroli di Fiorenzuola d'Arda" del 1975 scrive: «Molti di noi hanno forse avuto “indovinata la ventura” da uno di questi foglietti- pianeti coloratissimi illustrati da una rozza vignetta che a noi ragazzi qualche volta è capitato di prendere dal becco di un pappagallo portato in giro in una gabbietta da un ometto che faceva il mestiere di vagabondo. Questi “foglietti” hanno rappresentato una sorta di fata morgana, la vita altra cui le classi subalterne hanno sempre aspirato. L’oracolo racchiuso in questi “fogli” protrae nel tempo la segreta speranza dei poveri e degli sfruttati che possono trovare soddisfatta la loro aspirazione al benessere e alla giustizia sociale solo nella rappresentazione del sogno e della rappresentazione fantastica…”. 

FONTE: "Per le feste arriva ancora l’indovina-ventura col pappagallo" di Nello Blancato, pubblicato il 6 Luglio 2020 sul sito www. alazzolo-acreide-siracusa; www.casamuseo.it; FONTI ORALI. (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

 

domenica 1 maggio 2022

U pani di “Santruscianniru”- il pane antropomorfo offerto al Santo patrono di Barrafranca

Altare di sant'Alessandro, patrono di Barrafranca 
Da secoli Barrafranca (EN) il 03 maggio onora e festeggia il patrono Sant'Alessandro, attraverso riti e tradizioni che anno un sapore arcaico. 

Dai fedeli barresi Sant'Alessandro è considerato PATRONO poiché si ritiene possa intercedere presso Dio in favore della comunità; PROTETTORE in quanto ha il potere di proteggere da calamità naturali e GUARITORE nel senso che guarisce o difende dai mali corporali. Per queste sue doti è oggetto di grande devozione. 

Pane antropomorfo a figura intera
Una caratteristica della devozione al Santo è l’offerta del pane, conosciuto come “U pani di Santruscianniru". Non si tratta di un semplice pane ma di un ex-voto, ossia di un oggetto materiale, nel caso specifico il pane, offerto in cambio di una grazia ricevuta. I fedeli stringono un patto con il Santo: offrire devozione e ricevere la grazia. In questo modo l’ex-voto custodisce e rende visibile la richiesta.

Pane antropomorfo a forma di testa
E’ dal carattere economico-agrario della società siciliana, legata alla terra e di conseguenza alle alternanze delle stagioni, che trae origine la pratica devozionale del pane. «Nelle culture agricole e pastorali, ove la vita stessa della comunità dipende dalla quantità e qualità del raccolto, dal benessere degli armenti, questo fatto si manifesta con particolare evidenza.» Era inevitabile che in quelle società che fondavano la loro economia sulla raccolta di cereali, il fluire del tempo e l’avvicendamento tra tempi sacri e tempi profani, si articolavano in relazione ai periodi della semina, del germoglio primaverile e del raccolto. Che cosa poter offrire al proprio Santo patrono, eletto come protettore sia delle genti che delle messi (il simulacro di Sant'Alessandro porta sulla sedia papale delle spighe intrecciate) se non il bene più prezioso: il pane. Non si tratta del consueto pane, del pane di tutti i giorni, è un pane particolare, è il pane della festa. Proprio questa connotazione gli conferisce una particolarità, una sacralità, che supera le barriere spazio-temporali, per proiettarsi nella dimensione del divino. 
Pane antropomorfo a forma di mano
"E’ u pani da festa. E’ u pani binidittu!". Questo ripetono gli anziani quando si chiede loro del valore che per loro aveva il pane quando veniva offerto ai Santi e consumato durante le feste. Il pane della festa è riconoscibile per il particolare impasto e la particolare modellazione, per quella "forma diversa", che ne rimarca la dimensione del tempo festivo rispetto alla festa. Quel particolare pane, preparato e consumato in una determinata occasione rituale, diventa segno imprescindibile quella festa.
Pane antropomorfo a forma di gamba
Il pane di Santruscianniru è preparato con farina di frumento, sale, acqua, lievito e impastato a lungo, affinché la pasta diventi dura e compatta. In seguito è modellato in modo tale da conferirgli le forma desiderata, che richiamano parti del corpo o l’intera persona, in base alla richiesta di guarigione fatta dal devoto: si possono trovare pani a forma di gamba, di testa, di mano, di mammella, ecc. Prima di essere infornato viene spennellato con uovo sbattuto. La consegna del pane è preceduta un rituale ben preciso: prima della festa, i fedeli compiono, per nove giorni consecutivi, un viaggio penitenziale presso la chiesa Maria Ss della Stella. Poi il giorno della festa i fedeli riempiono l’altare con i pani antropomorfi n forma di parti del corpo, tibie, femore, mani o raffiguranti piccole bambole (pupidda), simboli del loro patto con il Santo. Il tutto termina con la benedizione del pane e la sua circolazione che può avvenire in chiesa, distribuito in piccolo bocconi ai fedeli come in una sorta di eucaristia, oppure portato a casa, dopo aver dato un’offerta, e conservano come un oggetto investito di proprietà apotropaiche, in quanto allontana gli influssi negativi. IL PANE DELLE FOTO è stato realizzato dal PANIFICIO BARRESI di Barrafranca (EN). 

FONTI:  Giuseppe Pitrè, Usi e  costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll., 1889; Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempo del lavoro e ritmi della festa, Meltemi Editore, Roma, 2006; http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/in-nome-del-pane-in-nome-delluomo: Ricerche di Rita Bevilacqua e fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

 




mercoledì 27 aprile 2022

“U VIAGGIU AI SANTI”- antica pratica devozionale cristiana


Una delle tante pratiche cristiane, antropologicamente interessanti, per capire la religiosità popolare è il cosiddetto " Viaggiu ai Santi", ossia il pellegrinaggio compiuto a piedi fino al luogo sacro dove poter incontrare il Santo protettore.
Il pellegrinaggio, come viaggio devozionale e penitenziale, è uno dei riti religiosi più comuni, assieme alla donazione del pane, che caratterizzano la religiosità popolare. Nella rivista "Il pellegrinaggio. Rivista internazionale di Teologia e Cultura COMMUNIO" leggiamo: «Il pellegrinaggio è un viaggio verso un centro nel quale si realizzerà l’incontro atteso e preparato dall'homo religiosus. Questo centro costituisce in maniera simbolica lo spazio della salvezza». Il mettersi in cammino è connaturato all'essere umano, anche il "viaggio a piedi verso un luogo sacro" chiamato pellegrinaggio, è una pratica che ritroviamo in tutte le religioni, antiche e moderne. Il pellegrinaggio rende sacro il tempo e lo spazio in cui si svolge. I pellegrini stessi sono sacri perché più vicini a Dio, attraverso la fatica, e più lontani dall'oikos familiare che li protegge nella vita di tutti i giorni, qui interrotta e momentaneamente abbandonata. Nella quotidianità, il tempo trascorre come ritmo continuo nella successione dei giorni e delle notti, delle settimane, degli anni. In questo tempo, ci sono degli stacchi derivanti dalla celebrazione di un rituale festivo. Questo, a sua volta, richiede particolari usi: l’andare a piedi anche scalzi, procedere in ginocchio fino agli altari o addirittura, percorrere gli ultimi metri che ci separano dal Santo strisciando per terra la lingua.
La motivazione di questo "andare" è quella dell’attesa di un incontro con chi, superando le normali categorie della materialità, possa cambiare la situazione attuale e al quale si chiede la soluzione di un problema che, un essere materiale, non può risolvere. Da ciò nasce la ricerca di un essere invisibile, spirituale che possa modificare le attuali connotazioni materiali. E chi meglio dei Santi, considerati gli intercessori presso Cristo, possono assolvere tale compito. Così, di fronte a una situazione di cui non si è in grado di affrontare o risolvere, s’intraprende, per nove giorni, il "viaggio" che, allontanando dal proprio spazio e tempo materiali, avvicina e immette in categorie spazio temporali in cui il "pellegrino" si sente più vicino alla spiritualità e gli permette di chiedere al Santo, in questo caso al "suo Santo patrono", la grazia di guarigione dei mali corporali.
Di là dai pellegrinaggi definiti maggiori (Gerusalemme, Santiago di Compostela, Roma, Canterbury, San Michele Arcangelo in Puglia, …), vi è una miriade di pellegrinaggi definiti a "corto raggio" ossia a luoghi e siti vicini alla zona del pellegrino. Stiamo parlando di quello che nella cultura agro- pastorale siciliana è conosciuto come "U viaggiu ai Santi". In occasione di qualche grave pericolo, o per chiedere la guarigione da una malattia o una grazia, i fedeli chiedono l’aiuto del Santo cui sono legati e, usciti dal pericolo, si compie la promessa recandosi presso un santuario dedicato a quel santo. Si ripaga, in questo modo, il protettore col sacrificio del viaggio e con la testimonianza personale della grazia ricevuta. C’è chi, poi, compie un "viaggio di richiesta", ossia per chiedere una grazia, una benedizione, in attesa che il Santo la esaudisca. Giunti alla meta, dopo una preghiera e la consegna degli ex voto, il pellegrino ritorna a casa, portando con sé candele, immagini sacre o altro. Questi cimeli però devono essere benedetti mediante lo strofinamento sul simulacro, attribuendo così a quell’oggetto benedetto un carattere taumaturgico, di protezione ai mali della vita.

FONTI: Gabriele Tardio Le credenziali, le insegne pellegrinali e i "ricordi" del pellegrinaggio garganico, Edizioni SMiL, Testi di storia e tradizioni popolari; AA.VV. Il pellegrinaggio. Rivista internazionale di Teologia e Cultura COMMUNIO, numero 153, maggio-giugno 1997, Jaca Book; Fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

mercoledì 9 marzo 2022

I VIRGINEDDI- antica pratica devozionale a San Giuseppe

Un’antica pratica devozionale che si svolgeva a Barrafranca (EN) era quella dei VIRGINEDDI. In realtà tale pratica è presente in molti paesi della Sicilia e si svolge in occasione della festa del patriarca San Giuseppe (le tavolate stesse sono chiamate "di virgineddi"): vedi Enna, Catenanuova (EN), Regalbuto (EN), Lascari (PA), Alimena (PA), Motta Sant’Anastasia (CT), Castel di Lucio (ME), tanto per citarne alcuni. L’origine di questa pratica si perde nel tempo e risale al passato agricolo-rurale della società. Si tratta di una sorta di ex voto al Santo patriarca, San Giuseppe, protettore dei poveri, degli orfani e delle ragazze nubili. Date le condizioni d’indigenza generalizzata in cui anticamente si trovava la gente, si capisce come la preparazione della tavola a San Giuseppe era un vero sacrificio poiché si offriva agli altri la quantità di cibo sufficiente a sfamare per intere settimane tutta la famiglia.

Tavola di San Giuseppe

La tavola porta a compimento un voto per grazia ricevuta, chiesto per se o per i propri cari, ma la sua realizzazione è frutto di una collaborazione sociale ampia, confermandone l’identità e rinsaldandone i legami.  C’era anche chi prometteva di realizzare la tavola chiedendo di casa in casa o prodotti alimentari oppure offerte in denaro (secondo un’usanza ormai del tutto abbandonata). Attraverso l’affermazione del diritto-dovere di chiedere e di dare, il devoto (in genere erano le donne) dimostrava al Santo la sua gratitudine per la grazia ricevuta, riaffermando il diritto di tutti alla sopravvivenza e ravvivando vincoli essenziali di solidarietà. Infatti, le "tavolate" (così come sono chiamate a Barrafranca) erano organizzate dalla famiglia, coadiuvata dalla spontanea iniziativa di altri nuclei familiari. C’era anche chi realizzava la tavola a proprie spese con enorme sacrificio, anche se erano  bene accette le eventuali offerte in natura o in denaro. L’organizzazione seguiva una regola base: promessa di realizzare una o più tavole; le spese per la loro realizzazione dovevano gravare sulla famiglia organizzatrice, anche se c’era chi, nella promessa, decideva di andare a chiedere ai vicini un’offerta; scelta dei personaggi che potevano essere figuranti la Santa famiglia: Maria, Giuseppe e Gesù Bambino, oppure giovani adolescenti, i Virgineddi: comunque dovevano far parte di ceti poveri o indigenti; la preparazione delle pietanze che variavano da 19 a un numero non definito, secondo la "promessa" fatta; la preparazione delle pietanze e l’allestimento della tavola doveva avvenire grazie al contributo di amici o parenti. Lo stesso termine VIRGINEDDI ci dà già l’idea di quanto fosse radicato nella religiosità popolare il legame spirituale non solo con il Patriarca Giuseppe, che tra i tanti patronati ha anche quello di essere protettore delle vergini, ma con la Santa Famiglia e Maria in particolare. Come Giuseppe accolse e aiutò la giovane "vergine e madre Maria", così i devoti, accogliendo nelle loro tavole le giovani donne vergini e indigenti, chiedono per loro aiuto e protezione.  Ritornando alla pratica devozionale, essa si svolgeva il 19 marzo o un qualsiasi mercoledì (giorno dedicato al Santo) del mese di Marzo.  Consisteva in un invito a pranzo di giovani ragazze indigenti e vergini, ossia non sposate. Difatti le ragazze dovevano avere un’età inferiore ai 18 anni. "L’omu di vintuttu e a fimmina di diciuttu" sentenziava un antico proverbio siciliano, marcando come l’età da marito oscillava intorno ai diciotto anni. Le giovani che dovevano partecipare alla "tavola" (potevano essere tre come tre sono i personaggi della Santa Famiglia o un numero non definito) dovevano essere vestite di bianco, simbolo di purezza e dovevano digiunare dalla mattina fino a pranzo. Fino al 1970, anni in cui la chiesa di San Giuseppe fu chiusa al culto, la signora che aveva fatto l’ex -voto e le ragazze-virgineddi andavano ad assistere alla messa dell’aurora nella chiesa di san Giuseppe (in seguito si andava alla chiesa di San Francesco).

Particolare tavola di San Giuseppe

Terminata la funzione, andavano a casa della signora per sedersi alla tavola imbandita in onore di San Giuseppe a mangiare un lauto pasto: la "pasta di san Giuseppe" un minestrone di lasagne insaporito con finocchietto selvatico, broccoletto, chiamato taghiallassu, e un mix di legumi: ceci, lenticchie e fagioli; frittate di verdure, come tagghiallassu finocchietto selvatico, spinaci, brucculu (cavolfiore) o semplici frittate di uova e pane grattatto, polpette di patate, uova sode su cui erano inseriti, mediante stecchini, olive nere, chiamati munachiddi, (la carne era proibita, poiché si era in Quaresima) e i dolci come pagnuccata, pasta siringata, sfingi, armuzzi santi, cassateddi, crispelle di riso, cannoli con crema e ricotta, 'mbanata cu a ghiacciata (pan di spagna con sopra la glassa) e altro. A fine pasto venivano dati finocchi e arance. 

Pane di San Giuseppe

Dopo aver pranzato, le giovani verginelle venivano congedate, dando loro il "pane di san Giuseppe": un pane particolare realizzato in varie forme, reso lucido dal bianco dell’uovo e cosparso di semi di papavero che in dialetto sono chiamati "girgiullina". C’era chi dava anche del denaro, tutto dipendeva dal tipo di promessa fatta al Santo. Con gli anni la tradizione ha subito alcune modifiche: come la scomparsa dell’abito bianco delle ragazze, che potevamo vestirsi con abiti eleganti; il consumo di pietanze diverse a quelle tradizionali; il ricevere in dono del denaro. Purtroppo i cambiamenti sociali della società barrese hanno portato alla definitiva scomparsa di questa pratica, lasciando, quasi inalterata, l’allestimento della tavola con i tre personaggi della Santa famiglia: Giuseppe, Maria e il Bambino.

FONTI: Ricerche di Rita Bevilacqua e fonti orali. TESTI: Fatima Giallombardo, La festa di San Giuseppe in Sicilia, Fondazione Ignazio Buttitta, 2006; Claudio Paterna, PERSISTENZA ARCAICHE NELL’ENTROTERRA, Novograf, 2010. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA




domenica 12 dicembre 2021

L’antica tradizione della "Cuccìa", il grano bollito che si consuma in onore di Santa Lucia

Cuccià salata

Un’antica tradizione siciliana in onore di Santa Lucia è il consumo di un piatto gastronomico conosciuto come "cuccìa". Si tratta di un piatto povero realizzato con del grano bollito.
Tante sono le ipotesi da cui deriva il termine. Alcuni ritengono che l’etimologia derivi dall'arabo kiskiya polenta di grano, o dal greco kokkìa frumento bollito. Secondo altri invece, deriverebbe dal termine "cuccìu" (ossia chicco in siciliano) di grano. Mentre la derivazione di "cuccìa" dal greco ta ko(u)kkía (i grani) è ormai definitivamente accertata e sostenuta unanimemente dagli studiosi moderni. 
Secondo la tradizione conosciuta come "Il miracolo della fine della carestia dell’anno 1646", il 1646 fu un anno particolarmente calamitoso per la Sicilia a causa di una grave carestia, aggravatasi per la minore disponibilità di carne in seguito ad una moria che distrusse quasi tutti gli allevamenti bovini. Siracusa era allo stremo. Allora il vescovo monsignor Francesco Elia de' Rossi chiamò il popolo alla preghiera, facendo esporre, sull'altare maggiore della cattedrale, l'argenteo simulacro di santa Lucia e indusse 8 giorni di suppliche. La mattina del 13 maggio 1646, mentre la cattedrale era gremita per la messa solenne, fu vista aleggiare una colomba tre o quattro volte finché si posò sul capo del vescovo. Quasi all'istante si sparse la voce che una nave carica di grano e legumi era approdata nel porto di Siracusa. La folla si commosse, gridò al miracolo e ringraziò santa Lucia. Per poterlo consumare immediatamente, il grano non fu macinato ma bollito e mangiato. Da allora si associa il consumo del grano bollito alla festa di santa Lucia. In realtà li consumo di grano bollito ha radici molto più antiche. Grano mescolato con latte si mangiava e si mangia anche in Egitto e in Tunisia. Questo piatto si chiama "kesc". La cuccìa risulta parente stretta anche della kóllyva greca, una vivanda a base di «grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, ecc., che si porta su un vassoio in chiesa alla fine di una messa di requie e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti», e della kutjà russa, che era a base di grano (o miglio, orzo, riso) bollito. L’esistenza della cuccìa, o di un cibo equipollente nella sua essenza, è certamente molto più antica della prima attestazione scritta, che troviamo nel Vocabolario siciliano e latino di Lucio Scobar stampato a Venezia nel 1519, dove cuchia (il digramma ch era pronunciato c in antico siciliano) è chiosata "triticum decoctum" (grano bollito). La cuccìa mette in gioco un doppio rapporto da un lato con la Santa e dall'altro (e più antico) con le potenze del sottosuolo cui si chiede protezione per il raccolto futuro…. un rapporto con i morti. Non a caso in molti paesi siciliani e pugliesi la cuccia si fa anche per i morti ed è detta grano dei morti. Nella Sicilia contadina si credeva che fossero i morti a rendere possibile la germinazione del grano spingendo il seme da sotto terra e non a caso essi si festeggiavano all'inizio della semina e si scacciavano sotto terra, ritualmente, soltanto in seguito. I morti e i santi erano le figure necessarie perché "tutto andasse bene" nei campi, e bisognava ingraziarseli. Santa Lucia, patrona contro le carestie, è onorata nel modo più classico: si consumano in suo onore abbondanti provviste perché non manchino quelle nuove, perché i campi producano il necessario, perché torni il grano nelle dispense. Un po’ come San Giuseppe apre le porte alla rinascita primaverile, e le sue tavole ornate fanno mostra di fertilità perché la terra si svegli, così Santa Lucia prefigura quella rinascita mantenendo in potenza i prodotti. L’ipotesi del significato augurale della cuccia è confermata da alcuni usi a essa connessi: si prepara per voto personale e si distribuisce ad amici e parenti in recipienti che devono tornare al proprietario sporchi e mai lavati (toglierebbe Provvidenza) o può essere benedetta in chiesa e consumarla sul posto, in atto devozionale.

Grano ammollo (foto web)

La tradizione siciliana vuole che il grano venga tenuto in ammollo nei tre giorni precedenti la festa, cambiando l’acqua ogni giorno, per farlo ammorbidire. Quando è gonfio si eliminano le spoglie, ossia "la pula", per lasciare così solo il cuore del chicco di grano. Poi si cuoce a lungo in grandi pentole e si consuma con un filo di olio. Questa è la versione salata. Esiste anche in alcuni paesi siciliani la versione dolce. Dopo aver bollito il grano, la cuccìa così ottenuta è condita con crema di ricotta e spolverizzata con cannella. 

Cuccià dolce (foto web)

A Barrafranca (EN) alcuni usano mettere  il grano in ammollo il giorno prima o la mattina del 12 dicembre. Anticamente il grano era "scanalato", ossia il grano rigonfio di acqua erasfregato "nu canali" (antica tegola di terracotta girata dalla parte più ruvida), per eliminare le spoglie. Poi in grandi "cadarua" era bollito a lungo e consumato solo con un filo di olio. C’è chi usa condirlo con legumi, tradizione che si ritrova in altri paesi siciliani. Gli anziani barresi sostengono che la vera "cuccìa" è quella semplice, condita con un filo d’olio. In un’intervista realizzata nel dicembre 1996 dal professor Ignazio E. Buttitta ad alcuni anziani barresi sul consumo della "cuccìa", questi rispondono: «C’è quello che segue l’uso antico: Santa Lucia era vergine e la dobbiamo mangiare bollita; c’è quello che non ci tiene al fatto della verginità e la condisce diversamente con ciò che gli piace, ma la vera cuccia è quella con il solo frumento, logicamente con un po’ di olio». Prima di essere utilizzata come piatto rituale legato a santa Lucia e consumato solo quel giorno, a "cuccìa" era un piatto usato comunemente dai contadini, poiché piatto povero e di facile preparazione.

FONTI: Alberto Vàrvaro, Vocabolario etimologico siciliano, Palermo, 1986, vol. I, s. vc; Luigi Milanesi, Dizionario Etimologico della lingua siciliana, Mnamon, 2015; Maria Ivana Tanga, Il Grano e la Dea, aprile 2018; Vladimir Ja. Propp, Feste agrarie russe, Bari, 1978; Angelo De Gubernatis, Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso gli altri popoli indo-europei, Milano, 1878; Nuova edizione a cura di Alfonso Leone pubblicata col titolo Il vocabolario siciliano-latino di L.C. Scobar, Palermo, 1990; Ignazio E. Buttitta, Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia, 1999. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

 RITA BEVILACQUA