domenica 12 dicembre 2021

L’antica tradizione della "Cuccìa", il grano bollito che si consuma in onore di Santa Lucia

Cuccià salata

Un’antica tradizione siciliana in onore di Santa Lucia è il consumo di un piatto gastronomico conosciuto come "cuccìa". Si tratta di un piatto povero realizzato con del grano bollito.
Tante sono le ipotesi da cui deriva il termine. Alcuni ritengono che l’etimologia derivi dall'arabo kiskiya polenta di grano, o dal greco kokkìa frumento bollito. Secondo altri invece, deriverebbe dal termine "cuccìu" (ossia chicco in siciliano) di grano. Mentre la derivazione di "cuccìa" dal greco ta ko(u)kkía (i grani) è ormai definitivamente accertata e sostenuta unanimemente dagli studiosi moderni. 
Secondo la tradizione conosciuta come "Il miracolo della fine della carestia dell’anno 1646", il 1646 fu un anno particolarmente calamitoso per la Sicilia a causa di una grave carestia, aggravatasi per la minore disponibilità di carne in seguito ad una moria che distrusse quasi tutti gli allevamenti bovini. Siracusa era allo stremo. Allora il vescovo monsignor Francesco Elia de' Rossi chiamò il popolo alla preghiera, facendo esporre, sull'altare maggiore della cattedrale, l'argenteo simulacro di santa Lucia e indusse 8 giorni di suppliche. La mattina del 13 maggio 1646, mentre la cattedrale era gremita per la messa solenne, fu vista aleggiare una colomba tre o quattro volte finché si posò sul capo del vescovo. Quasi all'istante si sparse la voce che una nave carica di grano e legumi era approdata nel porto di Siracusa. La folla si commosse, gridò al miracolo e ringraziò santa Lucia. Per poterlo consumare immediatamente, il grano non fu macinato ma bollito e mangiato. Da allora si associa il consumo del grano bollito alla festa di santa Lucia. In realtà li consumo di grano bollito ha radici molto più antiche. Grano mescolato con latte si mangiava e si mangia anche in Egitto e in Tunisia. Questo piatto si chiama "kesc". La cuccìa risulta parente stretta anche della kóllyva greca, una vivanda a base di «grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, ecc., che si porta su un vassoio in chiesa alla fine di una messa di requie e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti», e della kutjà russa, che era a base di grano (o miglio, orzo, riso) bollito. L’esistenza della cuccìa, o di un cibo equipollente nella sua essenza, è certamente molto più antica della prima attestazione scritta, che troviamo nel Vocabolario siciliano e latino di Lucio Scobar stampato a Venezia nel 1519, dove cuchia (il digramma ch era pronunciato c in antico siciliano) è chiosata "triticum decoctum" (grano bollito). La cuccìa mette in gioco un doppio rapporto da un lato con la Santa e dall'altro (e più antico) con le potenze del sottosuolo cui si chiede protezione per il raccolto futuro…. un rapporto con i morti. Non a caso in molti paesi siciliani e pugliesi la cuccia si fa anche per i morti ed è detta grano dei morti. Nella Sicilia contadina si credeva che fossero i morti a rendere possibile la germinazione del grano spingendo il seme da sotto terra e non a caso essi si festeggiavano all'inizio della semina e si scacciavano sotto terra, ritualmente, soltanto in seguito. I morti e i santi erano le figure necessarie perché "tutto andasse bene" nei campi, e bisognava ingraziarseli. Santa Lucia, patrona contro le carestie, è onorata nel modo più classico: si consumano in suo onore abbondanti provviste perché non manchino quelle nuove, perché i campi producano il necessario, perché torni il grano nelle dispense. Un po’ come San Giuseppe apre le porte alla rinascita primaverile, e le sue tavole ornate fanno mostra di fertilità perché la terra si svegli, così Santa Lucia prefigura quella rinascita mantenendo in potenza i prodotti. L’ipotesi del significato augurale della cuccia è confermata da alcuni usi a essa connessi: si prepara per voto personale e si distribuisce ad amici e parenti in recipienti che devono tornare al proprietario sporchi e mai lavati (toglierebbe Provvidenza) o può essere benedetta in chiesa e consumarla sul posto, in atto devozionale.

Grano ammollo (foto web)

La tradizione siciliana vuole che il grano venga tenuto in ammollo nei tre giorni precedenti la festa, cambiando l’acqua ogni giorno, per farlo ammorbidire. Quando è gonfio si eliminano le spoglie, ossia "la pula", per lasciare così solo il cuore del chicco di grano. Poi si cuoce a lungo in grandi pentole e si consuma con un filo di olio. Questa è la versione salata. Esiste anche in alcuni paesi siciliani la versione dolce. Dopo aver bollito il grano, la cuccìa così ottenuta è condita con crema di ricotta e spolverizzata con cannella. 

Cuccià dolce (foto web)

A Barrafranca (EN) alcuni usano mettere  il grano in ammollo il giorno prima o la mattina del 12 dicembre. Anticamente il grano era "scanalato", ossia il grano rigonfio di acqua erasfregato "nu canali" (antica tegola di terracotta girata dalla parte più ruvida), per eliminare le spoglie. Poi in grandi "cadarua" era bollito a lungo e consumato solo con un filo di olio. C’è chi usa condirlo con legumi, tradizione che si ritrova in altri paesi siciliani. Gli anziani barresi sostengono che la vera "cuccìa" è quella semplice, condita con un filo d’olio. In un’intervista realizzata nel dicembre 1996 dal professor Ignazio E. Buttitta ad alcuni anziani barresi sul consumo della "cuccìa", questi rispondono: «C’è quello che segue l’uso antico: Santa Lucia era vergine e la dobbiamo mangiare bollita; c’è quello che non ci tiene al fatto della verginità e la condisce diversamente con ciò che gli piace, ma la vera cuccia è quella con il solo frumento, logicamente con un po’ di olio». Prima di essere utilizzata come piatto rituale legato a santa Lucia e consumato solo quel giorno, a "cuccìa" era un piatto usato comunemente dai contadini, poiché piatto povero e di facile preparazione.

FONTI: Alberto Vàrvaro, Vocabolario etimologico siciliano, Palermo, 1986, vol. I, s. vc; Luigi Milanesi, Dizionario Etimologico della lingua siciliana, Mnamon, 2015; Maria Ivana Tanga, Il Grano e la Dea, aprile 2018; Vladimir Ja. Propp, Feste agrarie russe, Bari, 1978; Angelo De Gubernatis, Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso gli altri popoli indo-europei, Milano, 1878; Nuova edizione a cura di Alfonso Leone pubblicata col titolo Il vocabolario siciliano-latino di L.C. Scobar, Palermo, 1990; Ignazio E. Buttitta, Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia, 1999. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

 RITA BEVILACQUA

 

mercoledì 23 giugno 2021

"U lavuriddu": il rituale festivo dei germogli di grano

Lavuriddu

Che spettacolo vedere quei longilinei e altezzosi filamenti di colore verde o giallo paglierino spiccare da vasi di terracotta finemente lavorati e preparati per ricordare o esorcizzare la vittoria della vita sulla morte. Stiamo parlando du "LAVURIDDU", cosi chiamati in dialetto siciliano, ossia i germogli di grano o altri legumi che sono preparati dalle donne in occasione di determinate ricorrenze. A livello rituale, u lavuriddu è impiegato in alcune feste stagionali che corrispondo al ciclo di lavorazione del grano, che può essere così tripartito: Festa dei morti/Natale (solstizio d’inverno) in corrispondenza della semina del grano; San Giuseppe/Settimana Santa (equinozio di primavera) in corrispondenza della germinazione del grano; San Giovanni Battista/San Calogero (solstizio d’estate) in corrispondenza della raccolta del grano.

Lavuriddu

Come attestato dall'antropologo palermitano Giuseppe Pitrè, "u lavuriddu" è realizzato seminando in terraglie (piatti o ciotole) i semi di grano, di ceci o di altri legumi, sopra uno strato di stoppa o canapa (adesso si usa il cotone), mantenuto bagnato per far si che germogli e riposto al buio perché cresca di un bel colore giallo paglierino, evitando che la fotosintesi clorofilliana lo faccia diventare verde. Anche in questi piccoli accorgimenti, si nota il simbolismo che pervade l’intera preparazione: i semi sono simbolo di nascita, il buio delle tenebre della morte e il germogliare simbolo della vita che rinasce dal seme. In realtà, anticamente, le donne lo preparavano senza rendersi conto di tanto simbolismo, ma eseguivano un processo che si tramandava da padre in figlio. Questa simbologia affonda le sue radici nel periodo romano del mito del dio Adone, anche se era già «venerato dalle popolazioni semitiche della Siria e della Babilonia e dai Greci fin dal VII secolo a.C.» (J. G. Frazer, Il ramo d’oro, cap. XXIX), dove vigeva l’usanza di offrire al dio germogli di grano, "i giardini di Adone", ossia dei cestini o vasi, pieni di terra, nei quali le donne seminavano frumento, orzo, lattuga e vari tipi di fiori, che poi curavano per otto giorni e allo scadere del tempo, quei recipienti erano portati via con l’effige del morto Adone e gettati in mare. Per questo il "lavuriddu"è conosciuto anche come "giardino di Adone". I romani riprendono dai greci il culto di Adone, il giovane ragazzo di cui si era innamorata la dea Afrodite e che, dopo essere stato ucciso da un cinghiale, ottenne da Zeus, commosso per il dolore della dea, di passare una parte dell’anno tra i vivi, per poi tornare periodicamente nel mondo dei morti. Questo culto, simbolo del risveglio della natura, in Grecia era celebrato il primo giorno di primavera e anche a inizio estate.

Lavuriddu presente nell'Altare della Reposizione (Saburcu)

I siciliani lo chiamano "lavuriddu", diminutivo di "lavuru", termine con cui i contadini siciliani chiamano il campo di grano (lavuriddu rappresenta in piccolo "u lavuri"). Questo termine deriva dal latino "labor laboris" che significa lavoro, fatica, proprio a richiamare la fatica e lo sforzo con cui i contadini preparano il campo di grano.

Treccia di lavuriddu

Ancora adesso questi germogli sono preparati per abbellire l’Altare della Reposizione, in siciliano "Saburcu", mentre è quasi del tutto scomparsa la tradizione di prepararlo perla festa di san Giovanni Battista (24 giugno). Per tradizione la mattina del 24 giugno i ragazzini, con un piatto di "lavuriddu", andavano di porta in porta da parenti e amici per farsi tagliare in testa un ciuffo di "lavuriddu" in senso ben augurale. Dopo il ragazzino otteneva in dono pochi spiccioli o un santino. Alcune ragazze, invece, tagliavano alcuni germogli, li intrecciavano, li legavano con nastrini colorati e li regalavano all'amica del cuore, che doveva conservarli, diventando così comari per tutta la vita.

FONTI: Rita Bevilacqua, SETTIMANA SANTA A BARRAFRANCA, Bonfirraro Editore, 2014; "San Giovanni Battista e alcune tradizioni barresi" di Rita Bevilacqua pubblicato il 24 giugno 2019 sul blog- Il mio paese Barrafranca; "Cumpari e sangiuvanni" di Rita Bevilacqua pubblicato nella rivista ARCHEO NISSENA numero unico, Caltanissetta, 2015; I germogli. Un viaggio simbolico dall’Iran all’Italia meridionale di Gioele Zisa, pubblicato il 3 giugno 2019 su treccani.it/magazine/atlante/cultura. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

venerdì 11 giugno 2021

"I paggetti di sant’Antonio" antica tradizione popolare dedicata a sant’Antonio di Padova

I paggetti di sant'Antonio (foto Salvatore Licata)

Quando la devozione popolare ai Santi era motivo di unione, d’imput a esternare un senso di religiosità popolare che varcava i canoni classici del credo religioso, fino agli anni ’60 del secolo scorso, si svolgeva a Barrafranca (EN) una particolare tradizione religiosa popolare chiamata "I paggetti di sant'Antonio". Si trattava della vestizione in divisa di alcuni bambini i quali partecipavano alla processione solenne organizzata dai frati del Convento di San Francesco in occasione del "Corpus Domini".  Prima della riforma del Concilio Vaticano II (1962-1965) la festa durava otto giorni e ogni Chiesa organizzava una solenne processione che si snodava per le vie della propria parrocchia. La processione procedeva per le vie del quartiere, dove erano allestiti degli altarini, realizzati appendendo al muro esterno della casa, una coperta di seta o di ciniglia, riccamente lavorata, su cui sopra era appesa un’immagine sacra. Gli altarini erano arricchiti con immagine sacre, fiori, candele, spighe o pane e vino. Particolare era la processione organizzata dai frati che vedevano la presenza, appunto, dei paggetti di sant'Antonio, ossia dei bambini vestiti con un’uniforme simile nella forma a quella della Guardia Svizzera pontificia ma di colore diverso: pantaloni e casacca color carta da zucchero (azzurrino)con strisce nere, mantello nero (il nero ricorda il saio del Santo) e in testa basco nero con piuma bianca. Al fianco portavano una piccola spada. Al momento dell’elevazione dell’Ostensorio, mentre la banda musicale suonava il canto "T’adoriam Ostia Divina"e i fedeli intonavano inni sacri, i paggetti di sant'Antonio sguainavano le spade. Lo ricorda bene lo storico barrese Salvatore Licata quando, da bambino, vestiva i panni del paggetto e seguiva, assieme ai ragazzini della parrocchia, la lunga e spesso difficoltosa processione del Corpus Domini che si snodava tra le vie del quartiere Serra e Poggio (le strade di allora erano polverose e piene di ghiaia).
Da altre testimonianze emerge che i bambini vestiti da paggetti andavano in Chiesa anche il 13 giugno durante la celebrazione liturgica in onore di Sant’Antonio che si svolgeva nella Chiesa di San Francesco, dove è presente un simulacro del Santo padovano.

Paggetto di Sant'Antonio (foto Alessandro Costa)

Alessandro Costa
(classe 1945) ci racconta che erano i frati a fornire ai fedeli, che ne facessero richiesto, le indicazioni e il modello del paggetto. A organizzare la presenza dei paggetti sia per i festeggiamenti in onore di sant'Antonio, sia per il Corpus Domini erano padre Ludovico, padre Agnello, padre Guardiano e alcune fedeli della parrocchia. 

Paggetto di Sant'Antonio (foto Giuseppe Salvaggio)

Alcuni vestitini furono realizzati per grazia ricevuta. E’ il caso del compianto Giuseppe Salvaggio (classe 1945). La figlia Loredana ci racconta che la nonna, dopo la morte di un predicente figlio, aveva posto sotto la protezione di sant'Antonio il piccolissimo Giuseppe, affinché non morisse come gli altri. Scampato il pericolo, la madre andò in chiesa e a Padre Guardiano le diede le indicazioni per realizzare il vestitino da paggetto di Sant'Antonio.
Da alcune ricerche è emerso che la tradizione dei bambini vestiti da paggetti nella processione del 13 giugno la ritroviamo a Messina.

Messina 1962- Paggetti nella processione di sant'Antonio di Padova (foto web)

Da fonti storiche la devozione al Santo padovano si ebbe grazie al Beato Annibale Maria di Francia (1851-1927), grande devoto di Sant'Antonio e fondatore della Basilica Antoniana. Negli anni Messina è diventata il centro della devozione al Santo: difatti ogni anno migliaia di fedeli, provenienti non solo dalla provincia di Messina, ma da varie zone della Sicilia e dalla vicina Calabria, raggiungono la Basilica di S. Antonio per rendere omaggio al Santo e partecipare all'imponente processione del Carro Trionfale (l’attuale carro risale al 1946; il primo al 1931). Inoltre bimbi vestiti da paggetti sono presenti anche nei festeggiamenti che si svolgono a Padova e in altri paesi del Veneto. Da tutto ciò, si potrebbe ipotizzare che la tradizione, già presente a Messina nella prima metà del 1900, sia arrivata a Barrafranca ha metà del ‘900, portata dai frati francescani presenti nel Convento barrese. Difatti, dalle interviste sopra citate e dalle foto d’epoca, si evince che la tradizione si svolgeva anche a Barrafranca già negli anni '50. 
In questa tradizione centrale è la presenza dei bambini, caratteristica questa che riscontriamo in altre pratiche popolari come le orfanelle dietro i cortei funebri, le bimbe vestite di bianco nelle processioni del Corpus Domini o del Venerdì Santo. Simboli di purezza e d’innocenza, la presenza dei bambini qui assume un ruolo speciale, poiché Sant'Antonio è stato da sempre considerato protettore dei bambini, con riferimento ai tanti miracoli compiuti dal Santo verso i piccoli.

FONTI: Salvatore Licata, Carmelo Orofino, "BARRAFRANCA. La storia, le tradizioni, la cultura popolare", 3ªedizione, 2010; "PADOVA. LA PROCESSIONE DEL SANTO E I TREDICI PAGGETTI. NELLA TRADIZIONE, UNA SERENA BARRIERA AL CONFORMISMO NEOPAGANO" di Elisabetta Frezza, pubblicato nel giugno 2013 in ricognizioni.it; www.basilicaantoniana.it; Fonti orali tra cui Salvatore Licata, Alessandro Costa, Loredana Salvaggio. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

martedì 25 maggio 2021

"I nove cori degli Angeli" antica pratica devozionale che si faceva a Barrafranca

Antico funerale davanti alla chiesa Madre di Barrafranca

La pratica conosciuta come "I nove cori degli Angeli", che si svolgeva a Barrafranca (EN) fino alla fine degli anni '60, affonda le sue radici in quelle pratiche di devozione popolare che permettono a due persone di stringere un vincolo sotto la tutela cristiana. Una sorta di parentela spirituale che permette a persone estranee di stringere legami indissolubili che solo la morte può sciogliere.

Come tutti i patti che si stringono tra persone, anche questa pratica presuppone tutta una serie di riti e di obblighi che servono a suggellare il patto intrapreso. I nove cori degli Angeli si svolgeva il giorno di Pasquetta che per consuetudine è chiamato "Lunedì dell’Angelo" in ricordo dell’apparizione dell’Angelo alle donne che si erano recate al Sepolcro nel giorno della Resurrezione di Cristo. L'espressione "Lunedì dell'Angelo", diffusa in Italia, non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell'Ottava di Pasqua.

In quel giorno, due ragazze stringevano un patto che consisteva nel digiunare per nove anni consecutivi il giorno della Pasquetta, tanti quanti sono i cori angelici. Il beneficio che se ne ricavava era quello che alla morte di uno l’altro superstite si sarebbe adoperato a far partecipare al corteo funebre nove bambine vestite di bianco. Dopo i nove anni o "digiuni" il patto era ormai sancito e le ragazze diventavano "comari" per tutta la vita. In alcuni casi questo patto si poteva estendere ai figli morti prematuramente di una delle due contraenti. Se a morire era una donna non sposata o un bimbo piccolo, le bambine portavano dei cestini pieni di petali di rose bianche che venivano sparsi durante il corteo funebre. I nove bambini, canditi come la loro veste bianca, rappresentavano la purezza degli Angeli che accompagnavano l’anima del defunto. Erano nove, tanti quanti sono i cori degli Angeli, ossia la divisione in "schiere" o "cori" con cui vengono classificati gli angeli. Secondo i Padri della Chiesa gli Angeli si possono suddividere in tre Gerarchie, ognuna delle quali è divisa in tre Ordini differenti, che dalla loro riunione formano quello che si chiamano "I nove Cori degli Angeli". La prima Gerarchia comprende Serafini, Cherubini Troni, la seconda Dominazioni, le Potenze e le Virtù, la terza Principati, Arcangeli e Angeli. Questa divisione si basa sui nomi di angeli che si rinvengono nelle Sacre Scritture. Tra le tante preghiere che la Chiesa dedica agli angeli, molto conosciuta è la "Corona angelica", simile a un rosario, con la quale si pregano gli angeli di ogni gerarchia e si chiede loro di intercedere presso Dio per ottenere la grazia.

Ritornando al patto che i bambini stringevano nel giorno di pasquetta, questo dava la possibilità al futuro defunto di essere accompagnato, nel suo ultimo tragitto terreno, dalla preghiera e dalle litanie di anime candide che gli rendessero più agevole il trapasso nell’aldilà. Per capire il senso di tutto ciò, dobbiamo fare un passo indietro e ricordare alcune delle usanze funebri. Una di queste era quella di far partecipare al corteo funebre le orfanelle del paese. Difatti le suore accompagnavano, dietro richiesta, un nutrito gruppo di orfanelle vestite di nero, ricevendo in cambio l'elemosina. Le orfanelle s’impegnavano a pregare per l'anima del defunto. Più alta era la classe sociale del defunto, più nutrito era la schiera di persone che accompagnavano il corteo funebre, come il clero, i monaci, le orfanelle.

13 febbraio 1956 funerali Maresciallo Troja con le orfanelle 

Queste pratiche di pietà popolare nascono dalla convinzione secondo cui il trapasso nell'aldilà diventa più agevole con le preghiere di famigliari e di anime pure, come i bambini o le orfanelle. Nella cultura popolare siciliana i bambini e i poveri fungono da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, una sorta di "trait d’union" dove i bambini o i poveri diventano il tramite con l’aldilà, agevolandone trapasso. Molti rituali siciliani hanno come protagonista i bambini, vedi le tradizioni del 2 novembre o i poveri che per la loro condizione, la purezza dei bambini e l’indigenza dei poveri, li avvicina a Dio. Inoltre il rituale della preghiera permettere all'anima del defunto di oltrepassare la soglia del Naturale ed elevarsi verso il Paradiso. Secondo i cristiani, infatti, l’anima della persona scomparsa si trova in Purgatorio finché non gli viene permesso di salire in Cielo. Oltre all'ascensione delle anime, le preghiere per i defunti servono anche per far sentire la vicinanza tra chi rimane in vita e la persona scomparsa.

Ringrazio la professoressa Maria Costa per avermi raccontato la sua esperienza e avermi stimolata alla ricerca di questa tradizione barrese e la signora Maria Stella Faraci per la concessione della foto (pubblicata anche nella pagina facebook BARRAFRANCA IN BIANCO E NERO).

P.S Nella foto sono presenti oltre alle bambine vestite di bianco raffiguranti "I nove cori degli Angeli" e le orfanelle vestite di nero, alcuni personaggi del clero barrese di una volta: don Luigi Faraci e i francescani padre Agnello e padre Ludovico.

FONTI: Diego Aleo, Gaetano Vicari, La grande eredità. Viaggio attraverso le tradizioni della Settimana santa nel cuore della Sicilia, ristampa 2018; www.amordei.it; Fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

lunedì 3 maggio 2021

Le “corse di sant'Alessandro” e la benedizione dei campi

Sant'Alessandro- Processione serale

Un rituale festivo presente in alcune feste siciliane è quello che gli antropologi e studiosi del folklore chiamano "le corse dei Santi". Di grande effetto scenografico, questo rituale affonda le sue origini nel mondo agrario, per il quale il mese di Maggio era un mese molto importante. L’antropologo palermitano Giuseppe Pitrè scrive che "secondo la credenza, per la festa del Signore, le spighe sono belle e compiute (cunchiuti)". La festa del Signore di cui parla il Pitrè è la festa della Santa Croce che anticamente si festeggiava il 3 di maggio. Come dicono i contadini, in questo mese si farà "l’annata", ossia si vedranno i frutti del lavoro di un anno, delle attese di un buon raccolto. "Si 'ntra maia un t’attalentu, vinni li voi e accatta lu frumentu" (Se entro maggio non vieni appagato delle fatiche, vendi i buoi e compra il frumento) sentenziava un vecchio detto siciliano. Il grano sta per giungere a maturazione e ha bisogno dell’intervento di un’Entità Superiore perchè protegga la raccolta dai fulmini, dagli incendi e da qualunque accidente. Da qui il proliferare di feste dedicate al SS. Crocifisso, celebrate diffusamente il tre o la prima domenica di maggio.

Sant'Alessandro-Momento di sosta tra una corsa e l'altra 

A Barrafranca (EN) questo particolare rituale, conosciuto come "i cursi di Santruscianniru", si svolge durante i festeggiamenti del 3 maggio che il paese dedica al Santo patrono, Sant’Alessandro. Nella devozione popolare barrese è sant’Alessandro ad assumere il ruolo di protettore dei campi, di quelle messi che forniranno il sostentamento alle famiglie. Difatti durante la processione serale del 3 maggio il simulacro del Patrono, oltre a percorrere la tradizionale "Via dei Santi", è portato in località Sotto Serra e Puntaterra per benedire le campagne sottostanti. Anticamente questi luoghi corrispondevano ai confini del paese; mentre ancora oggi le campagne del Sottoserra sono coltivate a cereali, la località Puntaterra ormai è un agglomerato di case che si estende fino alla discesa Catena. La tradizione è mantenuta così com'è stata tramandata. Appena arrivati sul posto i portatori, correndo, spostano la portantina che trasporta il simulacro del Santo per un breve tratto. Questo avviene per ben tre volte. Ecco fatto: con questi gesti il Santo ha benedetto le campagne, il rituale è compiuto, la continuità del ciclo è mantenuta. In questo modo il fedele continua, con la ciclicità del rito che si ripete ogni anno, a mantenere uno stretto legame con la divinità, rinnovando la sua richiesta d’intervento sul corso della Natura. 

Primo piano del simulacro di Sant'Alessandro 

A livello antropologico, le corse diventato atti straordinari in cui la figura del Santo ha la facoltà di compiere il suo intervento sulla Natura, celebrando così la rinascita della stessa. Il popolo dei fedeli attribuisce a questi gesti un potere magico - religioso: il gesto simbolico di benedire il raccolto diventa "magico" nella misura in cui protegge dalle calamità naturali e "religioso" perché a compierlo, nel suo atto simbolico, è un ente divino. Simbolicamente il ruolo che il Santo assume di protettore dei campi è dato dalla presenza di mazzi di spighe poste nei fercoli. Nel caso specifico di Sant'Alessandro, rappresentato seduto sulla sedia papale, sono la presenza ai lati dello schienale di mazzi di “spighe intrecciate”, posizionali lì a sancire e ricordare il potere catartico di tutto il rituale.

Spighe di grano intrecciate 

Simbolo di abbondanza e prosperità, nella cultura contadina le spighe di grano intrecciate e poi raggruppate a formare un bouquet erano regalate come amuleto portafortuna, per essere appeso nelle abitazioni dei contadini, oppure posto a decoro delle processioni, sui carri trainati da buoi e a imbellire le statue sacre. L’intreccio di spighe di grano è legato i culti della fertilità della terra in onore delle divinità delle messi. Addobbare il fercolo di un Santo con spighe intrecciate è buon augurio per avere dei raccolti abbondanti.

Riprendendo le testimonianze del Pitrè, questi giorni di festa sono caratterizzati, non solo dalla processione del SS. Crocifisso o dei Santi, anche dall’addobbo del simulacro o fercolo con alimenti ed elementi vegetali, tra cui spighe di grano e fave; e ancora da processioni di torce, di cavalcate, di benedizioni dei campi. La festa si svolge nel periodo in cui i campi di grano sono maturi e la necessità di preservarli diventa l’obbietto principale dei contadini. Anche la festa del patrono di Barrafranca entra a diritto in quell'insieme di rituali festivi che testimoniano la permanenza di cerimoniali agrari atti a propiziare e continuare il ciclo della Natura.

FONTI: Giuseppe Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, 1881; Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Maltemi Editore, 2006; Fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

 RITA BEVILACQUA

sabato 17 aprile 2021

La tradizione barrese "DU VIAGGIU A SANTRUSCIANNIRU"

Primo piano del simulacro di sant'Alessandro

In occasione dei festeggiamenti in onore del santo patrono di Barrafranca (EN) Sant'Alessandro, riportiamo un'antica pratica devozionale, conosciuta come “u viaggiu a Santruscianniru” . Nella memoria degli anziani è vivo il ricordo dell’antica devozione al Santo patrono, tanto che era tradizione, (non del tutto scomparsa) di fare il “viaggio” a piedi, ossia compiere un percorso che, partendo dalla propria abitazione, arriva fino alla chiesa Maria SS. della Stella, dove si trova il fercolo del Santo, per poi assistere alla celebrazione eucaristica. Anticamente il “viaggio” partiva dalle diverse “cruciddi” (le croci erette nelle strade d’entrata del paese) fino alla suddetta chiesa. Durante il tragitto, si recitava una particolare preghiera, restando in perfetta concentrazione, tanto da non farsi distrarre da eventuali incontri. Trattandosi di preghiere in dialetto barrese e tramandate oralmente, ci sono diverse versioni. Qui riportiamo la versione della signora Giuseppina La Zia.

"Santruscianniru corpu santu,
e di Cristu fu amatu tantu.
Orazioni vulissimu fari,
datini grazia di comu a'mmaffari.
E ppì fari la penitenza,
datini la forza e la resistenza". 
Segue un Padre nostro e un’Ave Maria. (Si ripete tutto per nove volte)

Ritornando “o viaggiu”, questo veniva effettuato (adesso si fa in tono minore) per nove giorni prima della festa, cioè dal 24 aprile fino al 02 maggio, anticamente la mattina, adesso il pomeriggio. 
La mattina della festa, ossia il 3 maggio, si andava a donare il pane promesso al Santo e si recitava il rosario detto “du miliuni”, così chiamato perché si pronuncia un milione di volte la parola “Gesù”. Gli anziani chiamavano questo giorno, ossia il 3 maggio il "giorno delle Santi Croci", perché fino alla riforma liturgica del 1970, in questo giorno si festeggiava “l'Invenzione della Croce”. La tradizione di festeggiare il Crocifisso si è mantenuta in altri paesi siciliani, mentre  aBarrafranca si festeggia il Santo patrono.
Riportiamo il testo, rigorosamente in dialetto, du RUSARIU DI LI SANTI CRUCI. 
Questa è la versione della signora Giuseppina La Zia.

Sui grani grossi della corona del rosario si recita:
"Gesù Gesù 
aiutatimi Vù.                    
Arma mia pensacci tu.
Pensa ppi lu jiurnu chi si mori
di mundi ribelli a mma passari.
A lucifiru 'nfrinali a mma 'ncuntrari.
Vattinni luciferu 'nfirnali,
chi cu mmia un ciai nenti a cchi fari,
pirchì lu jiurnu di li Santi Cruci 
haiu dittu milli voti Gesù."
Sui grani piccoli:
Gesù… Gesù… Gesù… per 10 volte. (Si ripetere il tutto per 20 corone di 50 grani). 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA