mercoledì 20 marzo 2019

Il 20 marzo 1919 nasceva Mons. GIUSEPPE LA VERDE

Mons. Giuseppe La Verde

Il 20 marzo del 2019 il compianto Mons. GIUSEPPE LA VERDE avrebbe compiuto 100 anni. Per l’occasione vogliamo ricordarlo mediante una breve biografia. Instancabile uomo di fede, rimase a servizio degli altri fino alla fine. Nonostante i problemi di deambulazione e gli acciacchi dell’età, rimase lucido, volitivo e generoso fino alla fine dei suoi giorni.

GIUSEPPE LA VERDE nacque a Barrafranca il 20 marzo 1919.
Il 29 giugno 1945 fu ordinato presbitero da mons. Antonio Catarella.
Nel 1945 fu vicario Cooperatore nella parrocchia Maria SS della Stella. Qui formò un nutrito gruppo di giovani e ragazzi dell’Azione Cattolica. 
Nel 1948 fu rettore delle chiese del Purgatorio (demolita fine anni’50) e della chiesa Grazia.
Dal 1951 al 1979 fu direttore Spirituale in Seminario. Sempre in seminario, dal 1953  fu professore prima alle scuole Medie e successivamente alla facoltà di Teologia, per divenire poi docente di Storia della Chiesa, dove insegnò Teologia Ascetica  e Mistica, sulle orme dell’opera del Domenicano p. Garrigou - Lagrange “Le tre età della vita interiore” (in tre volumi), che si ispiravano ai principi teologici di san Tommaso, alla teologia mistica di san Giovanni della Croce e di san Francesco di Sales.
Dal 1954 al 1967 fu parroco di S. Veneranda e Priore di S. Andrea a Piazza Armerina.
Cappellano di Sua Santità nel luglio 1961, nel 1969 fu assistente Diocesano GIAC. Fu anche confessore dei vescovi Sebastiano Rosso e Vincenzo Cirrincione.
Da luglio 1979 a ottobre 1994 ricoprì la carica di parroco della chiesa Madre di Barrafranca e Vicario Foraneo della stessa cittadina. In seguito alle sue dimissioni da parroco, ricoprì dal 1994 fino alla morte la carica di vice parroco della chiesa Madre.
Si occupò di Azione Cattolica nei vari rami. Si fece coinvolgere dal movimento del Mondo Migliore di p. Lombardi, dagli Oasini di p. Rotondi, dal Terzo Ordine Domenicano (aveva iniziato gli studi dai Domenicani), dal FAC: come metodo pastorale, e prima ancora da “Parrocchia Comunità Missionaria” del Michenau. Recepì i dettami del Concilio Vaticano II come sforzo ed anelito al cambiamento della vita di ognuno, al tendere alla perfezione cristiana, fatta di virtù.
Inaugurazione CASA DEL FANCIULLO 19/03/1968 con mons. La Verde
Verso i movimenti ecclesiali non ebbe nessuna esclusione, restando fedele all'Azione Cattolica e ai suoi metodi, promuovendo così il laicato cattolico. Le figure di maggiore spicco della Diocesi  passarono dalla sua direzione spirituale. Negli ultimi anni fu dedito al servizio in parrocchia e ai neo catecumeni.
Una costante della sua spiritualità fu l’accettazione d’ogni evento, del quotidiano anche più insignificante, dalle mani di Dio, unito al sacrificio, alla rinunzia, alla sopportazione delle incomprensioni, dei malesseri fisici. Egli maturò l’idea che l’impegno nella vita spirituale passi dalla conoscenza e questo curò con attenzione e puntigliosità lo studio e la ricerca di Dio. Diffatti di lui rimangono molti scritti, custoditi dagli amici che l’hanno conosciuto. Fonte di unione con Dio era il silenzio, il raccoglimento interiore, la docilità allo Spirito e alle emozioni. Il suo era tutto un mondo intimo in cui solo attraverso gli scritti e la parola si può entrare. I suoi scritti sono interessanti per questo contatto profondo con il Signore e la sua capacità di sminuzzare i concetti ardui della vita ascetica La sua era la mistica della volontà di Dio in quella dei Superiori e nei fatti della vita.
Per non abbandonare il lavoro, per non vivere nella casa di parenti, preferì vivere in paese da solo, accudito da chi gli ha voluto bene. Nelle confessioni non era accomodante, ma non si ergeva a giudice. Incoraggiava, esortava, dava indicazioni precise.
Morì il 17 gennaio del 2006.

Fonti: Salvatore Licata, Accade… oggi. Fatti e avvenimenti barresi, 2018; Don Pino Giuliana, La chiesa di Piazza Armerina nel Novecento, Edizioni Lussografica, 2010 (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA


domenica 10 marzo 2019

Barrafranca 10 marzo 1876 Eugenio Vasapolli uccide il cugino prete Andrea Vasapolli

Cartolina d'epoca
 Tra le tante vicende successe a Barrafranca (EN) negli anni che furono, vogliamo ricordarne una, curiosa e particolare, che vede come protagoniste due famiglie accomunale dallo stesso cognome VASAPOLLI. Chi non conosce a Barrafranca le vicende di Benedetto e Raffaele VASAPOLLI, preti, politici e tant’altro, protagonisti delle della storia del nostro paese tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Questa volta non solo loro i protagonisti della nostra storia ma Eugenio (fratello dei preti Benedetto e Raffaele Vasapolli) e il cugino prete Andrea Vasapolli, allora cappellano della chiesa Grazia (chiesetta che ricadeva nel territorio appartenente alla famiglia Vasapolli).
Era il 10 marzo 1876. Intorno alle 9.00 del mattino in contrada Prito, lungo la via Moli, si sentirono i colpi di due fucilate e il tonfo di un corpo che cade a terra. A 60 metri da quel luogo si trovava un giovane di 24 anni, un certo Francesco Costero, nato a Moncalieri (TO) e arrivato da poco a Barrafranca con l’incarico d’ispettore di molini o “verificatore di macinato”.
Foto dal web
Corse verso il moribondo per aiutarlo il quale, prima di morire, fece il nome del suo assassino: il cugino Eugenio. Il ragazzo montò a cavallo e si recò in paese a raccontarlo alla locale stazione dei carabinieri. Sul posto si recarono il comandante della stazione dei carabinieri per i primi accertamenti. Ai gendarmi il Costero dichiarò che si trovava a cavallo della propria giumenta nella strada che conduceva al bivio, nella trazzera Petrandrea, proveniente dai Molini Moli, quando udì i lamenti del prete Vasapolli. Aggiunse che appena arrivato, trovò vicino al cadavere un certo La Loggia Giuseppe di 14 anni. Interrogato, La Loggia dichiara di non aver visto nessuno, tranne due ragazzi che là vicini pascolavano due mule. Dai primi accertamenti emerse, dalle testimonianze di Alessandro Carnazzo, di anni 54 e Filippo Branciforti, di anni 36, che prima degli spari videro fermo sulla strada, vicino al bivio il Costero.
Palazzo Vasapolli
Dopo 24 ore il Costero fu arrestato come presunto omicida del prete Andrea Vasapolli. Le motivazioni addotte dai militi di Barrafranca si basavano sulla testimonianza di Inforno Salvatore di anni 12 secondo il quale, quando il malcapitato prete Vasapolli passava per il bivio della trazzera Petrandrea, lui avrebbe visto un uomo che “teneva una giumenta merlina”. Inoltre appena sentite le fucilate, quell’uomo fuggì di fretta verso il paese. Inizialmente il processo seguì questa falsa pista. Gli indizi a carico di Eugenio erano tanti, aggravati dalla sua latitanza. Inoltre le lettere di Roberto Vasapolli (fratello del prete ucciso) indirizzarono sempre più le indagini verso il vero omicida.
Che cosa aveva spinto Eugenio a uccidere il cugino?
La tradizione popolare vuole che Eugenio corteggiasse una contadinotta del vicinato, una certa Mariastella. Un giorno la ragazza le rivelò che amava suo cugino Andrea. Roso dalla gelosia, Eugenio s’intrufolò a casa della ragazza e approfittando dell’assenza dei genitori, la sedusse. Da qui le gravi divergenze tra i due cugini. A questi probabili motivi se ne aggiunsero altri, ben più seri: antichi asti tra le loro famiglie per interessi economici. Ormai era da più di 12 anni che Andrea aveva una lite con il cugino. Liti risalivano fin dal 1860 già al periodo dei loro genitori, tra i fratelli Stefano (padre di Andrea) e Pietro (padre di Eugenio) Vasapolli. Inoltre ad aggravare la situazione intervennero delle liti per la divisione del palazzo che abitavano, sito nell'omonima strada.
Leopoldo Franchetti “Politica e mafia in Sicilia” 1876

La famiglia dei preti Benedetto e Raffaele Vasapolli voleva il palazzo tutto per sé, mentre don Andrea pretendeva che lo stabile fosse diviso a metà. 
Dopo un lungo processo, il 17 luglio 1887 la Corte di Assise di Caltanissetta condannò Eugenio Vasapolli a 15 anni di lavori forzati per “Omicidio volontario costituente assassinio” nei confronti del cugino Andrea e per il reato di violenza carnale commesso in precedenza e al risarcimento di lire duemila quale indennizzo alle parti lese.
È da questo fatto di cronaca vera, raccontato da Leopoldo Franchetti nel suo “Politica e mafia in Sicilia” del 1876, che lo scrittore Andrea Camilleri ha tratto l'ispirazione per il suo romanzo “La mossa del cavallo”, pubblicato nel 1999.

Fonti: Salvatore Licata, Il Brigante Giustiziere, BookSprint Edizioni 2013; Salvatore Vaiana, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento, Bonfirraro Editore 2000; Leopoldo Franchetti, Politica e Mafia in Sicilia. Gli inediti del 1876; Bibliopolis 1995; Benito Sarda, I fratelli Vasapolli, Edizioni Terzo Millennio, 2 edizione 2001 (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA





lunedì 4 marzo 2019

Il FANTOCCIO di Carnevale

Foto del web
Una tradizione carnevalesca, presente in molte parti dell'Italia, è il cosiddetto FANTOCCIO DI CARNEVALE.
In tempi lontani anche a Barrafranca (EN) l’ultimo giorno di Carnevale, il Martedì Grasso, si usava portare in giro per le strade del paese un FANTOCCIO che rappresentava il Carnevale. Si trattava di un manichino imbottito di paglia e vestito e abbigliato da capo a piedi con abiti semplici, da contadino. Appeso ad una scala di legno, il pomeriggio veniva portato in giro per i quartieri. Arrivati in piazza Regina Margherita, allora Piazza Convento, il fantoccio veniva bruciato, mentre si attendava il suono delle campane della Chiesa Madre che annunziavano l'inizio della Quaresima. Da ciò si capiva che il tempo dell’allegria e del divertimento era terminato. Non abbiamo notizie di quando questa tradizione sia scomparsa. Possiamo solo ipotizzare che non fu più attuata dopo il febbraio del 1956 quando, a causa dell'uccisione del maresciallo dei Carabinieri Troja, assassinato durante il Carnevale, le tradizioni carnevalesche subirono un arresto. Agli eventi resistettero solo le serate private.
Nella fantasia e cultura popolare, il Carnevale assumeva sembianze reali: quel fantoccio vestito di stracci, era la personificazione di quei giorni di allegria, che aveva caratterizzato il periodo carnevalesco. Come avviene nell'ordine naturale delle cose, il martedì grasso il fantoccio-carnevale ha ormai terminato la sua vita, deve morire, lasciare il posto al lungo periodo di penitenza e conversione della Quaresima. Eccolo allora nella piazza principale del paese a dissolversi tra le fiamme, a morire, a terminare i suoi giorni terreni! 
Le origini di quest’usanza sono profonde, richiamando i riti di fecondità e fertilità, praticati nei tempi più remoti, dove si offrivano a fantomatiche divinità della natura sacrifici in cambio di benessere e prosperità. 
Perché proprio a Carnevale? Esso assume uno spazio temporale ludico, interpretato con il ribaltamento dei ruoli del quotidiano, del proprio “status” esistenziale, dell’eterna subalternità. S’inquadra quindi in un ciclico dinamismo di significato mitico: è la circolazione degli spiriti tra cielo, terra e inferi. Il Carnevale riconduce a una dimensione metafisica che riguarda l’uomo e il suo destino. Posto tra “la morte” dell’inverno e la “rinascita” della primavera,  il Carnevale segna un passaggio aperto tra gli inferi e la terra abitata dai vivi. Le anime, per non diventare pericolose, devono essere onorate e per questo si prestano loro dei corpi provvisori: essi sono le maschere che hanno quindi spesso un significato apotropaico, poiché chi le indossa, assume le caratteristiche dell’essere ” soprannaturale ” rappresentato. Dobbiamo tener conto che in molti comunità antichi con la riforma calendariale arcaica, o numana (tra il VI e il V sec. aev il re “civilizzatore” Numa Pompilio aggiunse Ianuarius e Febriarius) l’inizio dell’anno è indicato in marzo e non in gennaio, come sarà con la riforma giuliana: marzo era, in tempi molto antichi, il primo mese dell’anno e, di conseguenza, febbraio chiudeva l’anno vecchio.
Nel Carnevale sono confluiti i riti agrari di purificazione e propiziazione, propri del mondo pagano, connessi con le feste che segnano l’inizio di un ciclo agricolo e quindi stagionale, ispirati al bisogno naturale di rinnovarsi, mediante l’espulsione del male: per questo l’atto di bruciare un fantoccio che simboleggi appunto il male, il passaggio dal vecchio al nuovo. Si trattava di un rituale magico per scacciare la passata cattiva stagione invocando l’arrivo della primavera, affinché fosse portatrice di buoni raccolti. Questo periodo coincide, infatti, con il tempo di tregua nei lavori stagionali della campagna. Il rogo rappresentava l’inverno morente che era bruciato con le sembianze di un fantoccio di paglia o legno e stracci, per distruggere definitivamente la stagione passata in favore della primavera, con la rinascita propizia della natura e della vita stessa. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

sabato 2 marzo 2019

La tradizioni barrese "I Pignatuna"

Pignatuna anno 1982
Una tradizione antichissima del carnevale barrese è "I pignatuna" ossia "la recita dei dodici mesi dell'anno" che viene rappresentata l'ultima domenica di carnevale.
Si tratta di una tradizione sviluppatasi sopratutto nei comuni con propensione agricola, il cui scopo è di festeggiare i dodici mesi dell'anno con la speranza che potessero portare un buon raccolto!
Il termine riprende la parola dialettale "pignata" che significa "pentola", in questo caso contenitore di coccio che, appeso tra una casa e l'altra, viene rotto da 12 CAVALIERI che rappresentano i dodici mesi dell'anno e da un RE e da una REGINA che regolano l'allegra combriccola.
Pignatuna anno 1982
Vestiti di gran pompa e sopra a dei cavalli, vanno in giro per il paese a recitare le loro parti e successivamente a rompere "u pignatuni", riempito di coriandoli, caramelle e quant'altro (vedi foto). Si racconta che, anticamente, venisse riempito di cenere, farina, acqua e qualche volta anche di topi. Il contenitore, a sua volta, è rivestito con carta crespa colorata, nastrini, "zagareddi" (stelle filanti) e ornamenti che lo rendono più bello e colorato.

Per tradizione la recita dei "Dodici mesi dell'anno" avveniva sia la penultima domenica di carnevale che l'ultima. Le parti recitate la penultima domenica furono composte da Salvatore Giunta detto "u Vaiazzu", mentre quelle recitata l'ultima domenica risalgono a Salvatore Bonaffini (1883-1972), conosciuto come Santu 'u Bagghiu. Attualmente si svolge solo la manifestazione dell'ultima domenica di carnevale.
Il testo poetico è un classico "contrasto" (componimento poetico dialogato) scritto in endecasillabi a rima alterna. Entrambe le versioni sono state tramandate oralmente. Trattandosi di tradizioni orali, quella che attualmente viene recitata ha subito modifiche e vari rimaneggiamenti, apportati dalle successive trascrizioni.
Anticamente tutte le parti anche quella regina erano affidate a uomini adulti, possessori di un cavallo e vestiti con abiti "spagnolegginati": infatti si tratta di una rappresentazione popolare itinerante, di origine iberica (simili tradizioni si ritrovano nei paesi di dominio spagnolo).
La rappresentazione segue una vero e proprio copione: i Cavalieri a cavallo si recano nella strada dove è stato allestito "u pignatuni" e dove già è presente la folla ansiosa di assistere alla rappresentazione. Inizia a recitare il Re, presentando l'allegre compagnia, seguito dalla Regina e poi, a turno, i dodici Cavalieri che presentano, in rima, il loro mese dell'anno. Al termine uno dei Cavalieri, armato di bastone, romperà "u pignatuni", tra le urla incitanti della folla e i bimbi ansiosi di raccogliere le leccornie che cadono dal suddetto; solo così il Cavaliere potrà mostrare la propria maestria. Terminato il tutto, i Cavalieri si spostano in un'altra strada, pronti a rompere un'altro "pignatuni".
Mentre prima tale manifestazione era affidata ai privati, poi passò sotto la gestione della Proloco locale e attualmente è affidata all'Associazione "Tutti in sella", mentre anni fa era l'Ass. "Pegaso Amici del cavallo" ad occuparsene.
Pignatunedda anno 2014

Questi nel 2008 hanno, per la prima volta,  realizzato i "pignatunedda" ossia la recita dei mesi dell'anno interpretata dai bambini delle scuole.
(Fonti: S. Licata, C. Orofino, Barrafranca. La storia, le tradizioni, la cultura popolare, 3 ed.; Racconto dei protagonisti dell'evento, tra cui mio marito)

Ecco la versione attuale, recitata durante la rappresentazione:

Regina:
I mi prisintu e sugnu 'na Rigina
tutta superba vistuta di gala.
Aju un mantu e 'na bella vistina
'durnata di brillanti a larga scala.
Mi fazzu accumpagnari ogni 
matina da tutti sti putenti officiala. 
Li tignu tutti sutta stu cumannu chi tutti quanti formanu 'nannu.
Re:
Populu riunitu ccu leanza,
haju vinutu a la vostra presenza
ppi fari carrivali nill 'usanza.
Vi vugghiu dari 'a ma rapprisintanza,
vi vugghiu dari 'a ma ricanuscenza,
ccu tutti sti genti comu stannu.
E tutti misi 'n fila comu sunu
i dudici misi formanu 'n annu.
Unu ppi unu si dannu l'atturnu
prima Jnnaru, lu bon capud'annu.
Gennaio:
Jnnaru sugnu un misi friddulinu,
lu friddu e la nivi sciacca li manu:
ogni massaru si nni va vicinu
pirchì un jè timpu di jri luntanu.
Scarsu di robi, di pani e di vinu,
li sordi su sarbati ppi ccu l'hanu,
friddu e nivi cadi a pruvulinu,
tutti li genti quatalati stanu.
E tu Frivaru chi si malandrinu
su vidi chista genti comu fanu.
Febbraio:
Frivaru sugnu i' sempri contenti
pirchì li ma pinsera 'un sunu tanti,
ammù mangiatu ccu divirtiminti
e pasquinatu ccu mudi fistanti.
Vi fazzu sunari tanti strumenti,
vi tignu allegri e triunfanti:
macari fazzu ridiri la genti,
'nsina a chiddi ccu li panzi vacanti.
E ora Marzu stacci ubbidienti,
l'ha seguìri tu li ma cumanni.
Marzo:
E trasi Marzu comu mi viditi,
ccu lu friddu e li beddi jurnati.
Ora tutti chiddi di li liti
misi a lu suli vi ricriati.
Ora erba unna nni viditi
anchi virduri 'ntra li marcatati,
e ccu la fami, pruvannu la siti,
macari muzzareddi cucinati.
E ora Aprili proteggi li ziti
a 'minzu rosi e sciuri spampanati.
Aprile:
Aprili è primavera a 'minzu sciuri,
ogni picciotta vi veni a' 'durari.
Aprili sempri riccu 'nti l'amuri
ogni picciotta svelta fa cantari;
ogni cavaddu mostra 'u sò valuri
pirchì d'erba si pò saziari.
Ogni massaru, si 'un fa' l'erruri,
ccumenza li sò sarmi a distinari.
E ora Maju fammi stu fauri:
li siminati, beni, fa' 'ngranari.
Maggio:
E trasi Maju e canteremu tutti:
picciddi, ranni, maritati e schetti.
E ora ccuminsaru i primi frutti:
su' li 'nzalati ccu li cipuddetti.
Massari ci nn 'è lunghi e curti,
chi fanu provi di muli e carretti,
siminati cci nn 'è belli e brutti,
anche cci nn’è 'ngranati perfetti.
E trasi Giugnu e va' mitili tutti,
ora va' fa' lu ristu di li detti.
Giugno:
Trasi Giugnu e versu li quattr'uri
ccu la faci sò nni fa trimari.
'Nti Giugnu lu viddanu è gran signuri,
'nti Giugnu lu viddanu è di valuri.
Ccu pani, vinu, tumazzu e dinari
e ccu lu forti metiri lavuri,
nessunu si vo' fari cuntrastari,
nessunu di sunnu si pò saziari.
E tu Giugnittu chi mi sta' a spittari
viditillu tu chiddu c'ha fari.
Luglio:
E c'ha ja fari santissimu santu
senza né pagghia, né uriu e frummin tu;
e havi 'n annu sanu chi mi vantu,
li ma siminati facivanu spavin tu,
li ma stagghiati facivanu l'antu.
Comu si distrudiru 'ntra un mumentu.
Di li detti privati 'un mi scantu:
di chiddi di lu bancu mi spavintu.
Ora c'è Austu chi jè misu a lu cantu,
a uannu si tratta di pignuramintu.
Agosto:
Eccu Austu: c'è pocu di schirzari,
'un si paa ccu chiarchiri e paroli,
si paa ccu chiarchiri e ccu dinari,
ccu stabili e ccu oggetti di valuri.
Havi 'n annu sanu chi staju a spittari:
cchi nni vuliti cchiù di lu ma cori.
'Un sintu chiarchiri e difinsuri,
li cambiali vugghiu prutistari,
e ccu Sittimbri la mmà 'ccomodari
tra mustu, ficudinii e pumadamuri.
Settembre:
Guarda cchi dici st'omu curtisi
ccu sti paroli troppu rispittusi.
I sugnu Sittimbri e accomudu li spisi
e ccu fari feri e atri cosi
sugnu l'eroe di tutti li misi
e di la paci frati amurusi
E tra li pianti vi tignu appisi
tutti li frutti maturi e gustusi.
Ora Ottuvri pigghia stà difisa
termina la vinnigna e va' riposa.
Ottobre:
E trasi Ottuvri e veni l'autunnu,
tutti li fogghi vanu cadinnu
e la vinnigna finirà di tunnu.
Frutti 'nti li pianti un ci nni stannu
e chiddi picca cosi chi ci sunnu
su chiddi frutti chi vi fanu dannu.
A lu massaru lu travagghiu abbunna
'ccumenza a lavurari ppi 'n atr'annu.
E tu Novimbri arricchirai lu munnu:
pripara li siminti ppi chist'annu.
Novembre:
Trasi Novimbri e si pò siminari,
li terri vi restanu un piaciri,
beatu cu cchiù lesta la pò fari
e 'ntra Novimbri putiri finiri.
Ogni massaru, lu sciascu a duviri,
alla 'mmirnata nova si pripara
e Di' lu sapi unna và a finiri.
E tu Dicimbri chi mi sta' a spittari
viditillu tu chiddu c'ha fari.
Dicembre:
Dicimbri sugnu 'i senza paura
ppi dari 'insignamintu a li massara.
Sugnu la ruvina di li picurara.
Chiddi curpiti di rifriddatura
stativi 'n casa e sbattiti tulara.
Di l'annu vicchiu sugnu la chiusura
e di l'annu nuvu la futura.
I dudici misi s'hanu 'llistutu
e tutti quanti l'ammu sintutu.
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA