lunedì 30 marzo 2020

La “Pasqua cristiana” e il “Navigium Isidis”: perché la Pasqua cade la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.



La Pasqua fa parte di quelle feste cristiane che non hanno una data fissa. Essa varia di anno in anno secondo un preciso calcolo: essa ricorre la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Da dove origina questo calcolo? Innanzitutto dobbiamo dire che la Pasqua cristiana deriva dalla Pasqua ebraica «La Pasqua ebraica e quella cristiana avevano in comune il tema della festa, l’attesa di una liberazione futura, per i cristiani ovviamente intesa come ritorno di Cristo» (Christoph Markschies, In cammino tra due mondi: strutture del cristianesimo antico). Così, in Asia minore, le prime comunità cristiane festeggiavano la resurrezione di Cristo a partire dal 14 Nisan, con un digiuno, che durava fino al mattino successivo e la stessa sera veniva letto il racconto della Pasqua descritto nel libro dell’Esodo (Es 12). La festa venne così a coincidere con l’equinozio di Primavera, «anche perché secondo la filosofia patristica, il mondo fu creato da Dio in primavera, nel mese di Nisan, settimo mese secondo il calendario ebraico, ma primo per importanza a quanto sta scritto nell’Esodo 12, 2. » (C. Bernardi).
A questa pratica di festeggiare la Pasqua diffusa in Asia Minore, s’iniziò a contrapporsi l’usanza romana di festeggiare la Pasqua cristiana di Domenica, sia perché nei vangeli si leggeva che Cristo era risuscitato il “giorno dopo il Sabato”, sia perché diventò una pratica sancita dallo stesso impero romano, da quando l’imperatore Costantino I nel 321 d. C. emanò la prima legge civile sulla Domenica: questo giorno dedicato al “diessolis”, divenne ufficialmente giorno di riposo. In tal modo, la domenica divenne il giorno dedicato al Signore.
Questo differente modo di celebrare la Pasqua delle prime comunità cristiane sfociò nella controversa questione conosciuta come “questione quarto decimana” (dal 14 di Nisan): la disputa riguardava, appunto, il giorno in cui si dovesse festeggiare la Resurrezione di Cristo. La questione fu risolta durante il Concilio di Nicea del 325 d.C. indetto dall’imperatore Costantino, dove fu stabilito che la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima Domenica dopo la luna piena che seguiva l’equinozio di primavera. Essendo in vigore il calendario promulgato da Giulio Cesare (il calendario giuliano, elaborato dall’astronomo greco Sosigene di Alessandria nel 46 a.C.), il concilio fissò l’equinozio di primavera il 21 marzo. Questa prassi permise di considerare la Pasqua come la vittoria dei figli della luce sulle opere delle tenebre, in quanto, dopo l’equinozio di primavera, il giorno diventa più lungo della notte. 
Il concilio approdò a queste conclusioni derivandole dalla filosofia patristica, la quale riteneva che «Cristo fosse morto e Risorto nella settimana coincidente con la prima settimana della creazione … Particolare significato aveva il primo, il quarto e il sesto. Il primo era l’equinozio, poiché Dio separò la luce dalle tenebre, creò il giorno e la notte, divisi in parte uguali. Il quarto giorno, creazione del sole e della luna, era un plenilunio. Nel sesto Dio creò l’uomo e si riteneva che sempre in un sesto giorno l’uomo avesse peccato e fosse morto. Per la Patristica Gesù fece in modo che la sua cattura e la sua passione avvenissero nella settimana primordiale, nella quale convergono plenilunio, equinozio e sesto giorno. Quindi l’attuale calcolato del giorno in cui festeggiare la Pasqua oltre che da considerazioni religiose delle prime comunità cristiane, che non vollero confondersi con le comunità ebraiche, esso derivò anche da motivi politici, di supremazia del potere di Roma, dalla volontà dell’imperatore Costantino di render forte il potere della chiesa di Roma sulle chiese asiatiche, creando così un impero unito non solo politicamente anche religiosamente. Non dobbiamo dimenticare che fu proprio l’imperatore Costantino con l’editto di Milano del 313 d.C. a concedere libertà di culto ai cristiani. Fu il primo passo verso il riconoscimento, avvenuto nel 380 d.C. con l’Editto di Tessalonica emanato da Teodosio, del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero.
Riti propiziatori dedicati alla primavera, atti a spaventare i demoni dell’inverno, si ritrovano anche nel mondo pagano. Questo era un modo arcaico di spiegare l’alternarsi delle stagioni, la rinascita della natura dopo il torpore invernale. Studi approfonditi sulle feste del mondo antico, emerge una festa che si potrebbe considerare la progenitrice della Pasqua cristiana: la festa del “Navigium Isidis”.
Nel mondo antico, la festa in onore della Dea egizia Iside, importata anche nell’Impero Romano, era caratterizzata dalla presenza di gruppi in maschera, come attesta lo scrittore Lucio Apuleo nel libro XI delle sue Metamorfosi. Che cosa hanno in comune il Carnevale con il “Carrus Navalis”? Il termine si rifà alla cerimonia del “Navigium Isidis” culminante nel “Carrus Navalis”. Il “Navigium Isidis” (la nave di Iside) consisteva in un corteo in maschera in cui un’imbarcazione di legno (Carrus Navalis) era ornata di fiori. L’imbarcazione era issata su un carro che si diceva appunto “navale” ed era trainata da umani mascherati, le cui maschere richiamavano non solo i defunti, anche i demoni del mondo dei morti. Si trattava di una festa molto allegra, dedicata alla vicenda della Dea Iside che fece risorgere il suo sposo Osiride. Il richiamo al connubio Morte- Resurrezione è chiaro. Inoltre in Egitto la festa si teneva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Ciò corrisponde all’odierna Pasqua cristiana. Nella tradizione romana del “Carrus Navalis” fu introdotto un elemento nuovo: la burla, con lo scopo di sbeffeggiare personaggi influenti. Questo perché i romani avevano l’abitudine di ironizzare sui potenti. Si potrebbe così ipotizzare che, con l’avvento del Cristianesimo, la festa del “Navigium Isidis” fu smembrata per formare due festività: Carnevale (Carrus Navalis, la processione delle maschere) e Pasqua (Iside che fa risorgere il proprio amato dopo l’equinozio di primavera).

FONTI: Rita Bevilacqua, “Settimana Santa a Barrafranca”, Bonfirraro Editore, 2014; Claudio Bernardi, La drammaturgia della Settimana Santa in Italia; Néstor F. Marqués, Un anno nell'antica Roma: La vita quotidiana dei romani attraverso il loro calendario; www. storieromane.altervista.org. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

sabato 7 marzo 2020

"Il Morbo della Spagnola" che colpì Barrafranca nell’estate 1918

Barrafranca- cartolina d'epoca

Tra le tante vicende che colpirono il paese di Barrafranca (EN), oggi vogliamo ricordare "Il Morbo della Spagnola" che colpì Barrafranca nell'estate 1918.
Mentre infuriava la 1ª Guerra Mondiale, anche a Barrafranca un morbo falcidiò parte della popolazione, toccando, secondo le stime del comune, tremila casi di contagio. Tra gli ultimi giorni di agosto e settembre 1918 arrivò in paese un morbo, chiamato allora "Spagnola". Il morbo fu denominato in questo modo non perché fosse apparso in Spagna, ma perché fu l’unico paese che ne pubblicò la notizia. Infatti, il paese iberico non era coinvolto nel conflitto bellico e quindi la notizia non fu censurata come invece avvenne nelle nazioni in guerra che temevano il diffondersi del panico.
Morbo della Spagnola 1918-Foto di repertorio 
Si trattò di una terribile influenza pandemica, che si trasmise attraverso tosse e starnuti, o portando le mani alle mucose del naso o degli occhi. Il virus influenzale A/H1N1 attaccò le vie respiratorie, per cui, oltre alla febbre, comparivano i banali sintomi da raffreddore, con tosse. Nei casi più gravi anche polmonite. Da alcuni studi condotti in America, il mordo non fu causato da un'improvvisa "migrazione" di geni dell'aviaria verso il ceppo dell'influenza umana, ma in un ceppo già esistente si verificò una variazione nel tipo di emoagglutinina (glicoproteina antigenica presente sulla superficie di alcuni virus) e fu questo a rendere la "spagnola" particolarmente virulenta. Gran parte delle vittime furono giovani sani tra i 18 e i 29 anni di età, molti dei quali soldati, una fascia di popolazione che di solito è più resistente a questo tipo d’infezione. «Fu la più grande epidemia d’influenza della storia, eppure gli anziani, che di solito sono i più colpiti dalla malattia, ne furono quasi completamente immuni», spiega Michael Worobey, biologo dell’University of Arizona di Tucson che ha diretto una ricerca sull'argomento. Secondo lo studio, i giovani furono particolarmente vulnerabili alla spagnola (che uccise un contagiato su 200) perché da bambini non furono esposti a un tipo d’influenza simile. 
Dottor Angelo Ippolito- medico barrese
A portare il morbo a Barrafranca (EN) fu un militare di stanza a Palermo, Salvatore Balsamo, venuto in paese per un breve periodo di licenza matrimoniale. Il matrimonio fu celebrato il 25 agosto. Già febbricitante, il Balsamo si mise a letto. Il povero militare era inconsapevole di essere il portatore di una terribile epidemia che stava mietendo morti in tutto il mondo. Il male fu così virulento che il giovane militare morì il 29 agosto. A Salvatore Balsamo seguirono i coniugi Tropea- Pirrelli; lei la Pirrelli, morì il 2 settembre, mentre Tropea il 9 settembre. Ormai nella popolazione si fece strada che si trattava di una pandemia. La terribile epidemia dilagò rapidamente, cogliendo la popolazione impreparata.


Don Luigi Giunta
Secondo il resoconto del parroco Giunta, diretto protagonista dell’evento e riportato nel suo libro su Barrafranca, stando agli atti del municipio, i colpiti furono circa tremila. Anche i medici, oltre ad essere pochi per infezione si ritirarono dal servizio ad eccezione del dottor. Angelo Ippolito che si prodigò con abnegazione. Il popolo si ammassò dietro la sua porta, già dalle 4 del mattino. Intere famiglie rimasero chiuse nelle loro case, senza nessun soccorso. I cadaveri si ammucchiarono nelle case. Per mancanza di trasporti funebri, fu difficile rimuovere i cadaveri. Le casse mortuarie, realizzate con quattro rozze tavole bianche, raggiunsero il costo di 400 lire. Quando iniziò a mancare il legno, s’iniziò a costruire casse con le tavole dei letti. Altri chiusero i cadaveri nei cassettoni da biancheria e le donne avvolsero i loro piccoli figli in dei cenci e li accompagnarono al cimitero. Dall'opera prestata ai malati, il Giunta notò che il morbo colpì sia uomini sia donne, in una fascia di età compresa tra i 18 e i 44 anni, e più di tutti le persone che erano colpite da altre infermità. Spesso i becchini non ebbero neanche il tempo di preparare le fosse, tanto che alcuni cadaveri giacevano nel cimitero all’aperto, con grave danno per i quartieri limitrofi. Più colpiti furono i bassifondi del quartiere "Costa", probabilmente perché più vicino al cimitero.
L’unica farmacia dovette chiudere, poiché il direttore si ammalò. L’amministrazione comunale, capeggiata in quel periodo dal sindaco Cav. Onofrio Virone (1880-1948), chiese l’intervento dell’esercito che inviò tre medici militari, Cap. Med. Salvatore Mandarà da Vittoria, Pietro Spampinato da Biancavilla e Cap. Med. Amato, e 10 soldati della territoriale per il trasporto dei cadaveri e lo scavo delle fosse. I medici non riuscivano a trovare un modo per tamponare la situazione e chiesero un consulto al prof. Giuffrè, che rispose con una lettera in cui consigliava di utilizzare piccole dosi di chinino (Acido chinino è un composto organico, ossiacido della serie del cicloesano, contenuto nella corteccia di china, nelle bacche del caffè, e in diverse altre piante; si presenta in cristalli incolori, dal sapore molto acido; i suoi sali, chiamati chinati, hanno la proprietà di diminuire la produzione di acido urico).
Il popolo in preda alla disperazione, cercava conforto nella religione che trovò nei due soli sacerdoti rimasti attivi Don Luigi Giunta e Don Calogero Marotta. Nel suo libro, il Giunta racconta che in quei giorni il Vescovo di Piazza Armerina, mons. Mario Sturzo, ordinò che il SS Viatico (Comunione che si amministra ai malati in punto di morte) si portasse in forma privata. La mattina dalle 05.00 alle 09.00 andava alla ricerca d’infermi che avevano bisogno dei sacramenti. Dalle 09.00 fino a tarda sera, eccetto una mezzoretta per rifocillarsi, si giravano le strade del paese per ammucchiare i cadaveri, che furono riuniti nei quartieri e poi trasportati al cimitero.
Da parte dell’amministrazione comunale furono emanate una serie di ordinanze straordinarie in cui s’intimò, tra l’altro, la requisizione di legname per sopperire alla mancanza di bare, dell’olio d’oliva, della manodopera per la pulizia delle strade, dei bovini da macello per l’alimentazione degli infermi. Tra le altre cose si deliberò l’imposizione del prezzo del latte che non poteva superare lire 1,60 al litro e si vietò il suono delle campane a morto. Il paese fu suddiviso in 6 zone: la prima assegnata al dott. Angelo Ippolito, la seconda al dott. Mandarà, la terza dott. Benedetto Mattina, la quarta al cap. med. Amato, la quinta al dott. Mastrobuono e la sesta al cap. med. Spampinato. Questa suddivisione non fu mantenuta a causa dell’infermità di alcuni medici.
Da una stima sommaria i morti furono circa 500.

FONTI: Luigi Giunta, Cenni storici su Barrafranca, Caltanissetta, 1928.- Worobey M, Han GZ, Rambaut A, "Genesis and pathogenesis of the 1918 pandemic H1N1 influenza a virus" in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA