venerdì 21 febbraio 2020

Carnevale 1966 “I PIGNATUNA”: storia del rilancio dell’antica tradizione barrese

PIGNATUNA anno 1966

La storia è fatta di uomini che, amando il proprio paese, s’impegnano a rilanciare usi e tradizioni popolari. Questo è il caso della storia del rilancio dell’antica tradizione carnevalesca barrese conosciuta come "I PIGNATUNA", avvenuta nel 1966 grazie all'interessamento del barrese professor Giuseppe Filippo Centonze.
Andiamo per ordine. I PIGNATUNA, o recita dei dodici mesi dell'anno, sono una manifestazione che a Barrafranca (EN) si rappresenta l'ultima domenica di carnevale. Si tratta di una tradizione sviluppatasi sopratutto nei comuni con propensione agricola, il cui scopo è di festeggiare i dodici mesi dell'anno con la speranza che potessero portare un buon raccolto! Il termine riprende la parola dialettale "pignata" che significa "pentola", in questo caso contenitore di coccio che, appeso tra una casa e l'altra, è rotto da 12 CAVALIERI che rappresentano i dodici mesi dell'anno e da un RE e da una REGINA che regolano l'allegra combriccola. Vestiti di gran pompa e sopra a dei cavalli, vanno in giro per il paese a recitare le loro parti e dopo a rompere "u pignatuni", riempito di coriandoli, caramelle e quant'altro. Anticamente tutte le parti anche quella regina erano affidate a uomini adulti, possessori di un cavallo e vestiti con abiti "spagnoleggianti": infatti, si tratta di una rappresentazione popolare itinerante, di origine iberica (simili tradizioni si ritrovano nei paesi di dominio spagnolo).
Dopo l’uccisione del maresciallo della locale Stazione dei Carabinieri Salvatore Troja e della figlia Amalia avvenuta il 13 febbraio 1956 (lunedì grasso) da un uomo mascherato, si assistette a un arresto dei festeggiamenti. A Barrafranca fu tassativamente vietato di festeggiare il carnevale. Per anni gli sfarzi della manifestazione "I PIGNATUNA" rimasero nel ricordo degli anziani. Il rilancio dell’antica manifestazione, così cara ai barresi, si ebbe come accennato sopra, nel carnevale del 1966, grazie all'interessamento del prof. Centonze.
PIGNATUNA anno 1966
«All’epoca dei fatti- ci racconta il prof. Centonze- insegnavo in un corso popolare serale presso la scuola Puntaterra (Plesso Europa) di Barrafranca. Vivi ancora i ricordi dell’antica tradizione dei "Carrivali a Cavaddu", alcuni miei alunni più anziani mi esternarono il loro desiderio di vederla ancora rappresentata».  A causa dell’increscioso fatto di sangue successo a Barrafranca durante il Carnevale 1956, ossia l’uccisione del maresciallo Troja, non era così semplice, perché vi era un decreto ministeriale che proibiva al paese di Barrafranca di celebrare le antiche tradizioni carnevalesche. Conscio delle difficoltà non solo organizzative ma soprattutto burocratiche, il prof. Centonze si attivò, in primis, a far togliere quel divieto ministeriale. «Per la fattiva mediazione diplomatica dell’allora onorevole socialista Totò Lauricella, mio amico personale - continua il prof. Centonze- si ottenne la riabilitazione del territorio. Superato questo scoglio, c’era da curare l’organizzazione, trovare i fondi necessari, i costumi, ma soprattutto rintracciare le parti in dialetto barrese che i “cavalieri” dovevano recitare». Ricordiamo che le parti che i "Cavalieri a cavallo" recitano sono trasmesse oralmente, quindi bisognava raccoglierle e trascriverle. Per prima cosa il prof. Centonze andò da chi era considerato il detentore di queste parti: il barrese Salvatore Bonaffini, conosciuto come "Santu U Bagghi". «Nessuno a Barrafranca le ricordava per intere- rammenta il professore- così presi un registratore e andammo da "u zi Santu U Bagghiu", che non ci volle dare nessuna collaborazione. 
PIGNATUNA anno 1966
Allora scandagliammo tutti i quartieri del paese, intervistando gli anziani, sia uomini sia donne. Riuscimmo così ad avere pezzi di quelle parti che, vennero da me sbobinate e trascritte in un quaderno. Per la stesura finale, ritornammo da "u zi Santu" che, per l’intervento di un amico comune, si rese poi disponibile a sistemare le parti, che furono definitivamente redatte. Negli anni ’80 diedi una copia di queste parti allo storico barrese Salvatore Licata che le trascrisse nel suo saggio sulla storia di Barrafranca». Il passo successivo fu poi cercare i personaggi (tutti uomini, anche la regina, poiché allora alle donne non era permesso di andare a cavallo) tra i giovani del paese capaci di andare a cavallo. Tutti aderirono con entusiasmo, anche perché alcuni di loro avevano già i cavalli. Infine, finanziati dal prof. Centonze, furono realizzare i vestiti. Tutta l’organizzazione fu curata nei locali del Circolo Culturale Sportivo "Morandi" nella sede di Via Umberto. Quell'anno fu un successo: dopo un  decenno Barrafranca ritrovava la sua antica tradizione, la gioia e allegria del carnevale. La manifestazione fu messa in scena soltanto alcuni anni e per un certo periodo scomparve, fino alla ripresa del 1982. (Le foto sono di proprietà del prof. Filippo Centonze). (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 



giovedì 20 febbraio 2020

Il DOMINO’- antico costume carnevalesco

Particolare del domino dei bambini- Barrafranca 1974
Ormai a Carnevale siamo abituati a vedere adulti e bambini travestirsi con abiti in parte elaborati. Anticamente il costume carnevalesco tipico di Barrafranca (EN) e non solo era il DOMINÒ.  Si trattava di un costume realizzato cucendo diversi lembi di stoffa di vari colori, abbellito con sonagli e completo di mantella e cappucci. I più ricchi lo realizzavano in seta, i più poveri in raso o altra stoffa. Fu in voga a Barrafranca fino agli anni ’60, anche se per i bambini fu utilizzato negli anni ’70. Difficile datare l’origine etimologica del termine. Alcuni studiosi del folklore lo fanno risalire al domino ecclesiastico, che era un cappuccio nero che anticamente era usato in inverno dai preti per portare il viatico. Altri, invece, hanno ipotizzato che il Dominò o Domino derivi da un indumento tipicamente veneziano, utilizzato dai nobili per spostarsi da un palazzo all’altro. Il dominò, che accompagnava la maschera a muso di cane detta bautta, era formato da un ampio mantello con cappuccio, in genere di velluto nero, che era indossato per mantenere l’incognito. Era utilizzato spesso durante il carnevale perché manteneva l’anonimato permettendo così sotterfugi o scherzi anche pesanti. A Venezia questa maschera non prese mai un uso comune, la usavano soprattutto le donne perché consentiva loro di celare ancor meglio la persona. S’ipotizza che il nome di questa maschera derivi da una formula ecclesiastica, Benedicamus Domino (benediciamo il Signore) che era usata, soprattutto nel Medioevo, dai frati ed ecclesiastici, come saluto e deriva dalla similitudine fra il mantello della maschera e i paramenti liturgici dei sacerdoti. Si pensa altresì che il travestimento sia nato per deridere l’abito sacro dei prelati.
Particolare del domino dei bambini- Barrafranca 1974
Come dicevamo prima, il dominò barrese non era nero ma colorato, composto di una casacca con mantello e pantaloni di diversi colori. Nella forma e nei colori richiama il vestito di Arlecchino, giacca e pantaloni aderenti, tappezzati di triangoli rossi, verdi, gialli, azzurri disposti a losanghe. Anticamente a Barrafranca il dominò era venduto nella bottega del signor Salvatore Centonze, che si trovava al Corso Garibaldi, vicino Piazza Itria. Chi non poteva comprarlo, aveva la possibilità di affittarlo presso il negozio di tessuti del commerciante Salvatore Pirrelli sito in via Vittorio Emanuele.
L’utilizzo del dominò è accertato anche in altri paesi siciliani, con variante del colore nero. A Paternò (CT) tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, protagonisti delle serate da ballo carnevalesche erano i dominò, figure ammantate in neri e ampi mantelli di raso nero, con una mascherina a coprire tutto o in parte il volto, e un cappuccio. Secondo gli studiosi paternesi si tratta di una maschera d’origine veneziana, come la bauta, protagonista di diverse opere liriche. Il nome dominò derivava dal latino dominus, ossia signore, padrone. 
Dominò di Bisacquino
Anche a Bisacquino (PA) la maschera principale è il “domino”, una tunica scura che copre la persona fino ai piedi e munita di un cappuccio sulla testa che impedisce di riconoscerla. Secondo Vincenzo Giompaolo, autore del libro Carnevale in Sicilia, sulle origini di quest’abbigliamento non esistono documenti certi. Per quanto riguarda il paese di Bisacquino è innegabile la sua matrice islamica, sia per la sua forma identica a quella del “burka” o “caffettano” islamico, sia per le origini arabe di Bisacquino, testimoniate dal nome (“Busekuin” in arabo), dalla conformazione urbanistica del centro storico e dagli usi dialettali, culturali e tradizionali. 
(Fonti: Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana; Vincenzo Giompaolo, Carnevale in Sicilia, vol. I, BAGLIERI EDITRICE, 2016; PATERNESI, quindicinale d’informazione locale, allegato de “La Sicilia” gennaio 2006) (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA