giovedì 28 maggio 2020

L’antico detto siciliano: "Pira nun facisti e miraculi vò fari?"



Era di uso comune tra il popolo siciliano parlare attraverso motti, proverbi, detti, che esprimessero, in modo conciso e diretto, un pensiero comune tramandato da generazione a generazione. Di queste locuzioni popolari la lingua siciliana ne è ricca. Interessante a tal senso è il detto "Pira nun facisti e miraculi vò fari?", che i più anziani barresi ricorderanno sicuramente.
Il detto è usato per indicare l'inettitudine di una persona che, nonostante i progressi raggiunti in società, rimane gretto e sordo ai bisogni altrui. Chi nasce in un modo non può mancare di essere della stessa natura di chi l’ha messo al mondo. 
Sentitolo spesso pronunciare dalle persone anziane, ho cercato di capirne il significato. Cosi mi è stata raccontata un’interessante leggenda che, come tutte le storie tramandate oralmente, ha diverse varianti.
Si racconta che un contadino aveva un albero di pere che da tempo non faceva più frutti. Allora decise di abbatterlo e venderlo come legname. Trovandosi un giorno in chiesa a chiedere un miracolo che non arrivava, riconobbe in quella Croce il suo pero. Vedendo che non aveva fatto il miracolo, esordì in questa maniera:
«Pira nun facisti e miraculi vo’ fari?
Cu nasci di natura ‘un pò mancari
Piru ca nascisti ‘ntra ‘n ortu ‘ccillenti
e mai a lu munnu pira avisti a fari,
ora ca nun sì cchiu piru, cruci ti prisenti
e la genti ti veni a adurari.
Ma iu ca ti canusciu, ti dicu piru senti:
pira nun facisti e miraculi vò fari?
Dissi Sant Agustinu veramenti:
cu nasci di natura ‘un pò mancari.»
(Traduzione: Pere non facesti e miracoli vuoi fare? Chi nasce di natura non può mancare. Pero che nascesti in un orto eccellenti mai al mondo pere facesti, ora che non sei più pero, croce ti presenti e la gente ti viene ad adorare. Ma io che ti conosco, ti dico pero senti: pere non facesti e ora miracoli vuoi fare? Disse Sant’Agostino veramente: Chi nasce di natura non può mancare).
Classica leggenda siciliana, mista di sacro e di profano, che cerca di spiegare il carattere spesso inetto dell’individuo, ricorrendo a elementi semplici e devozionali della cultura contadina. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

martedì 19 maggio 2020

Le fave e il loro significato simbolico di legame trai i vivi e i morti



Baccelli e fave 
Uno degli ortaggi più consumati in primavera è la fava. Un antico detto siciliano recitava: "Aprili favi chini, s’un su ccà su a li marini" indicando il periodo in cui le fave sono pronte: ad aprile nelle zone marine, mentre nelle zone interne nel mese di maggio. Essiccata, la fava è consumata tutto l’anno. 
La pianta delle fave è originaria dell'Asia Minore e da secoli è ampiamente coltivata per l'alimentazione umana e animale (foraggio).
Oltre ad essere un cibo prezioso, nella cultura agro-pastorale siciliana le fave hanno un importante significato simbolico. La fava, dal latino faba e dal greco kúamoi, era una pianta molto rispettata dagli antichi perché ritenuta consacrata agli Dei. 
Fave
Per le popolazioni egizie erano considerate come il simbolo dell'incarnazione tanto da chiamare "campo di fave" il luogo in cui le anime soggiornavano in attesa di reincarnarsi. I sacerdoti egiziani la consideravano immonda, poiché mangiandolo, si sarebbero cibati delle carni dei propri cari. Ai discepoli di Pitagora, come agli adepti dei culti orfici, era assolutamente vietato mangiare fave perché equivaleva a divorare i propri genitori e significava interrompere il ciclo della reincarnazione. I pitagorici provavano nei loro confronti un vero e proprio orrore poiché la fava ha uno stelo privo di nodi grazie al quale essa diventa un mezzo di comunicazione privilegiato tra l’Ade e il mondo degli uomini, strumento quindi di metempsomatosi (passaggio da un corpo ad un altro) e del ciclo delle nascite. Secondo Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) le fave contenessero le anime dei morti, e per questo motivo erano utilizzati nei Misteri di Dionisio e di Apollo, come pure nei vari culti dei morti. Per i greci le fave restavano il simbolo "dei defunti" ma si dovevano mangiare poiché trasmettevano la loro benedizione.  Per i romani erano sacre ai morti e si ritenevano che ne custodissero le anime. Ne facevano grande uso, anche crude con l’intero baccello (quando erano molto tenere). Però le consumavano soltanto in occasione di riti funebri. 
Fiori 
Probabilmente queste credenze erano legate ai caratteri botanici della pianta: il fiore di fava, da cui si sviluppano i baccelli contenenti i semi, è bianco maculato di nero, colore insolito nel mondo vegetale e per tradizione associato alla morte. Le macchie nere sui petali dei fiori delle fave erano considerate un lugubre segno dell'aldilà, anzi si pensava che le anime vaganti dei defunti albergassero proprio in quei fiori maculati. Nell’antica Roma, durante le celebrazioni della Dea Flora, protettrice della natura, vere e proprie cascate di fave erano riversate come buon auspicio sulla folla in festa. I Romani la offrivano inoltre col lardo agli dei e il nome stesso della gens Fabia sembra derivi da questo legume.
Nella cultura agro-pastorale siciliana questo legume rappresentava un tramite con aldilà, il legame tra i vivi e i morti. Difatti in molte parti della Sicilia le fave secche, bollite da sole o con minestre, sono uno dei cibi tradizionali dei morti, che è consumato nel giorno della Commemorazione dei Defunti (2 novembre). Nel libro "Spettacoli e feste popolari siciliane" l’antropologo Giuseppe Pitrè riporta l’antica credenza secondo cui «gli antichi le fave contenevano le anime dei loro trapassati: sacre ai morti essendo le fave, e credendosi di vedere ne’ fiori di essi certi caratteri neri neri (indizi di lutto) che si attribuivano agli dei infernali». Esiste una relazione molto stretta tra i morti e il cibo: cibarsi delle fave nel giorno in cui si ricordano i propri cari, è come ricostituire una continuità tra la vita e la morte. In quanto simbolo delle anime defunte, cibarsi delle fave è come un incorporare i morti, facendoli così rinascere.
L’importanza simbolica delle fave nella vita quotidiana dei siciliani si evidenzia anche in alcuni riti propiziatori che le donne mettevano in atto al momento della nascita di un neonato.  In "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano", Pitrè riporta una filastrocca che nel Circondario di Modica veniva recitata dalla donna più anziana presente al momento della nascita di un bambino, dopo aver posto nove fave nere sul tavolo. Serviva per accattivarsi la simpatia delle "Donne di fora" benigne: 
"Favi favuzzi,
Ch'hannu niuri li 'uccuzzi!
E viniti cu lu suli,
Cà la menza è priparata;
E faciemucci anuri
A lu figghiu e a la figghiata!".
Altro rito propiziatorio con le fave, legato al sesso del nascituro, si svolgeva durante la festa di san Giovanni battista (24 giugno). Presa una fava cruda, una donna gravida andava a posizionarsi davanti alla porta, buttando la fava all’indietro: se il primo a passare dopo l’atto era un uomo il bimbo sarebbe stato maschio, se era una donna sarebbe stata femmina. La prova andava ripetuta tre volte.

FONTI: Plinio il Vecchio, "Naturalis Historia", 78-79 d.C., liber XVIII, 117-118; "Dizionario mitologico, ovvero Della favola, storico, poetico, simbolico, ec…" opera del sig. abate Declaustre tradotta dal francese, Napoli, 1834, tomo III; Giuseppe Pitrè, "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano", vol.II, ristampa all'edizione di Palermo 1870-1913; Giuseppe Pitrè, "Feste popolari siciliane", Brancato Editore, 2003. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

venerdì 15 maggio 2020

Barrafranca e il culto di Sant’Isidoro agricoltore

Pala san Isidoro agricoltore
Il 15 maggio la Chiesa festeggia Sant’Isidoro agricoltore, protettore dei contadini.
A Barrafranca (EN) nella chiesa Maria SS. della Stella troviamo un’enorme pala d’Altare “Il miracolo di S. Isidoro agricola” di antica fattura, proveniente dall’ex chiesa del Purgatorio, sita vicino alla chiesa Maria SS. della Stella e demolita intorno al 1957, per costruire gli attuali locali parrocchiali. La presenza di una tela o meglio di una pala d’Altare di tale spessore artistico, denota come il popolo barrese dovesse avere, in tempi passati, una certa sensibilità e devozione verso il Santo spagnolo riconosciuto dalla Chiesa come protettore dei contadini. Ritornato al “Miracolo di S. Isidoro”, la pala è stata dipinta intorno al 1620 da Pietro D’Asaro (1579- 11 giugno 1647). Quest’artista, detto il monocolo di Racalmuto poiché nativo della cittadina in provincia di Agrigento, fu discepolo di Filippo Paladini. Nelle sue opere si firmava “Monocolus Racalmutensis". L’opera, proveniente dalla vicina chiesa del Purgatorio trasformata in oratorio nel 1956, è firmata dall’artista ma purtroppo non reca la data dell’esecuzione. La pala fu restaurata nel 1970 dalla Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d’Arte della Sicilia con sede a Palermo, e incorniciata nel 1997. Il restauro non ha reso più visibile la scritta ai piedi del quadro, riportata dal parroco Giunta nel suo libro “Brevi cenni storici su Barrafranca” e da Gaetano Vicari nella sua “Guida alle principali chiese di Barrafranca”: INFELIX MONUCULUS RACALMUTENSIS DISCIPULUS PALADINI FECIT. Il Santo è rappresentato durante uno dei suoi miracoli, quando gli Angeli aravano per lui, lasciandogli il tempo di pregare. Si racconta che durante le giornate di lavoro, spesso si fermasse a pregare. In questo frangente di tempo erano gli angeli a lavorare al posto suo con l’aratro e con i buoi. Al termine della giornata, Isidoro aveva mietuto la stessa quantità di grano di altri. Così al tempo dell’aratura: tanta orazione, ma alla fine della giornata tutta la sua parte di terra era dissodata. D’Asaro pone al centro della scena i personaggi mentre nello sfondo si prospetta la scena dei buoi nell'atto di arare. La pala è citata nell'Enciclopedia Treccani alla voce D’Asaro Pietro.
Il culto di Sant'Isidoro si diffuse in Sicilia negli anni del vice regno spagnolo (1516 -1713), in quanto il Santo è patrono della città di Madrid e protettore della Famiglia Reale di Spagna. Molti i paesi della Sicilia che ne festeggiano il culto, come a Giarre (CT) di cui è il patrono, e molte chiese siciliane sono a lui dedicate. La presenza del quadro ci può far ipotizzare che anche a Barrafranca vi era il culto del Santo, protettore dei campi e dei raccolti.
San Isidoro nacque a Madrid intorno al 1070 e lasciò giovanissimo la casa paterna per essere impiegato come contadino. Grazie al suo impegno i campi, che fino allora rendevano poco, diedero molto frutto. Nonostante lavorasse duramente la terra, partecipava ogni giorno all'Eucaristia e dedicava molto spazio alla preghiera, tanto che alcuni colleghi invidiosi lo accusarono, peraltro ingiustamente, di togliere ore al lavoro. Quando Madrid fu conquistata dagli Almoravidi, si rifugiò a Torrelaguna, dove sposò la giovane Maria. Un matrimonio che fu sempre contraddistinto dalla grande attenzione verso i più poveri, con cui condividevano il poco che possedeva. Nessuno si allontanava da Isidoro senza aver ricevuto qualcosa. Morì il 15 maggio 1130. Fu canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa Gregorio XV, grazie a un grosso miracolo che Isidoro fece in favore del re Filippo II. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa madrilena di Sant'Andrea.
P.S. Nella foto sopra, davanti alla pala del “Il miracolo di S. Isidoro agricola” è posta una statua in cartapesta di San Luigi Gonzaga, opera di Giuseppe Fantauzzo. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

domenica 3 maggio 2020

I rituali festivi nella cerimonialità agraria al SS. Crocifisso del 3 Maggio

Croce di canne e rami di ulivo benedetti la Domenica delle Palme (foto web)
Fino alla riforma del Calendario Liturgico, il 3 maggio la Chiesa celebrava l’Inventio Crucis (dal latino inventio-onis: scoperta) dal popolo intesa Festa d’u Crucifissu.  La commemorazione fa riferimento al ritrovamento della Croce, nel 326, per merito di sant'Elena, madre dell’imperatore Costantino. La Croce si trovava a Gerusalemme, sotto un tempio dedicato alla dea Venere, e con essa ne erano state sotterrate altre due. Si narra che per sant'Elena fu facile scoprire quale delle tre fosse quella che aveva visto morire Gesù. Ella fece avvicinare una donna ammalata che, accostandosi a una delle croci, guarì immediatamente. Questo è quanto riferiva il "Messale Romano Quotidiano", prima che la riforma del Calendario Liturgico, seguito al Concilio Ecumenico Vaticano II, accorpasse l'Invenzione della Santa Croce con la festa dell'Esaltazione della Croce del 14 settembre, data in cui la Chiesa ricorda l'Exaltatio Crucis (dal latino exaltatio-onis: elevazione, innalzamento). Tale celebrazione è riferita alla restituzione della Croce da parte del figlio di Cosroe II (il re persiano che l’aveva trafugata nel 614), all'imperatore bizantino Eraclito I che la riportò a Gerusalemme nel 628.
Tra i diversi rituali festivi che testimoniano la permanenza della cerimonialità agraria nelle feste dedicate al SS. Crocifisso, celebrate in Sicilia diffusamente il 3 o la prima domenica di maggio e, in qualche caso, la seconda metà di settembre, è la tradizione di piantare nei campi una croce fatta di canne sulla quale vengono posti dei ramoscelli di ulivo benedetti la Domenica delle Palme. Maggio è per il contadino siciliano un mese decisivo. Scrive l’antropologo Giuseppe Pitrè in "Spettacoli e feste popolari siciliane" (1881): «Le spighe secondo la credenza, per la festa del Signore, sono belle e compiute (cunchiuti)». Da qui il detto: "Si ntra maju ‘un t’attalentu, vinni li voi e accatta lu frumentu" (Se entro maggio non vieni appagato delle fatiche, vendi i buoi e compra il frumento). Come osserva il botanico siciliano Francesco Minà Palumbo (1841-1899), «Nel mese di maggio le spighe son piccoline, se soprabbondano le erbe nocive, se dominano i furiosi ed estenuanti venti meridionali, se mancano le piogge, ogni speranza è perduta, l’agricoltore deluso cambia divisamento, e per nutrir la sua famiglia è costretto di vendere i buoi». (Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa). Il grano sta per giungere a maturazione, momento, quindi, cardine per la buona riuscita del raccolto. l folclorista Salvatore Salamone Marino (1847-1916) segnala che, «quando ancora le sementi erano conferite ai contadini dal padrone, dal camperi (campiere – guardia campestre) o dal curatulu (quelli che si prendono cura per parte della campagna del padrone), li simenzi (sementi) devono essere già consegnate un’ora innanzi dì, ossia nel momento che lucifero, la stella precorritrice dell’aurora, splende all’oriente; ed è perciò che questa stella riceve da’ villicci (dai contadini) il nome di stidda di li simenzi (stella delle sementi)». Inoltre afferma che, ai suoi tempi, la pratica di far benedire una parte simbolica delle sementi e la permanenza dell’uso di “segnar con una croce il grano innanzi di cavarne il primo tòmolo, ripetendo intanto le parole consuete: ‘Nomine Patri e di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu! (Nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo!), era già desunta.
Sempre il Pitrè scrive che: «In Nicosia sopra ogni bùrgiu (covone) si pone una croce di canna; in Alimena al primo o all'ultimo mazzu (mazzo) o timugna di gregni (catasta o accumulo di grano) si colloca un’immagine della santa protettrice del comune, Maria Maddalena, (in Gianciana, una figurina di S. Vincenzo Ferreri; in Casteltermini, dell'Assunta ecc.) perchè protegga la raccolta da' fulmini, dagl'incendi e da qualunque accidente.» Per proteggere il raccolto, i contadini piantavano  nei campi una croce fatta di canne sulla quale vengono posti dei ramoscelli di ulivo benedetti la Domenica delle Palme Lo scopo era quello di proteggere le colture dai temporali e dalla grandine. La Croce diventa così simbolo della Vita, di quell'Axis Mundi di cui parla lo storico della religioni Mircea Eliade. La Croce o Albero della Vita indica quell'asse dell’universo che, per la sua posizione in verticale, congiunge CIELO TERRA e INFERI: simbolicamente l’asse permette il passaggio dalla morte, rappresentata dalla base dell’asse, alla vita, rappresentata dalla sua sommità. Eliade continua affermando che l'Albero-Croce, in quanto riproduzione del tempo e dello spazio, esprime simbolicamente l'essere del cosmo e la sua capacità di rigenerarsi all'infinito. Di conseguenza la Croce realizzata con elementi naturali come le canne diventa elemento riconducibile ai rituali primaverili e ai culti di propiziazione agraria. 
Secondo le testimonianze proposte dal Pitrè, oltre che dal trasporto processionale del Crocifisso, i giorni di festa sono caratterizzati: dalla distribuzione e dal lancio di abbondanza della produzione agraria; dall'addobbo del simulacro o fercolo con alimenti ed elementi vegetali tra cui spighe di grano e fave; e ancora da processioni di torce, dalla presenza dei ceti, di cavalcate, di benedizioni dei campi. Tutti questi tratti, per quanto variamente articolati e più o meno  inseriti all'interno dei rituali, sono tutt'oggi presenti nelle attuali cerimonie siciliane dedicate al SS. Crocifisso.

FONTI: Giuseppe Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, 1881; Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, 2006; Mircea Eliade, Trattato delle religioni, a cura di Pietro Angelini,  Boringhieri, 1976. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 



L’antica festa liturgica del 3 maggio: festa della Santa Croce

(Foto dal web)
Gli anziani sicuramente lo ricorderanno che, fino alle riforme del Messale Romano promulgate da Papa Giovanni XXIII nel 1960/1962, il 3 maggio ricorreva la festa della Santa Croce. La Chiesa in pratica ricordava solennemente il ritrovamento (da invenio, termine latino) della Croce di Cristo fatto da Elena, madre di Costantino il Grande. Dopo profondi scavi sul Golgota si erano trovate  interrate tre croci. Per sapere qual'era quella di Cristo, furono poste sopra un p malato che sarebbe guarito al tocco di quella giusta. In realtà questa ricorrenza ha origine nelle Gallie: difatti nell'usanza gallicana, invece, almeno dal VIII secolo, la festa della Croce si teneva il 3 maggio, data del ritrovamento della Croce secondo la "leggenda di Giuda Ciriaco". Mentre a Roma si affermava la festa dell'Exaltatio, fissata al 14 settembre, in ricordo del ritrovamento della vera croce di Gesù da parte di sant'Elena, madre dell’Imperatore Costantino, avvenuto, secondo una tradizione, il 14 settembre del 327, giorno in cui la reliquia sarebbe stata innalzata dal vescovo di Gerusalemme di fronte al popolo, che fu invitato all'adorazione del Crocefisso, nelle Gallie si era introdotta, e con successo, una festa Inventionis Sanctae Crucisstabilita al 3 maggio. Pare che essa entrasse nelle chiese gallicane nella prima metà del sec. VIII. La riportano i manoscritti del Martirologio geronimiano di Wolfenbüttel (772) e di Berna (di poco posteriore), i calendari mozarabici, i Sacramentari gelasiani del sec. VIII. La data del 3 maggio fu suggerita, a quanto sembra, dalla leggenda di Giuda Ciriaco, vescovo di Gerusalemme (BHL, 7022). Secondo la leggenda di Giuda Ciriaco, sarebbe stato l’ebreo Giuda, per ordine della regina Elena, a trovare la croce. Tenuto per sette giorni in una cisterna vuota senza cibo né acqua, si sarebbe deciso a rivelare ciò che tante volte aveva sentito raccontare dai suoi antenati, cioè che la croce del Messia era sepolta sul Golgota. (Enciclopedia Cattolica)
Signore dell'Olmo- Mazzarino (CL)
Anche se questa festa liturgica è stata soppressa e unificata a quella dell’Esaltazione della Croce del 14 settembre, in molti paesi siciliani e non, si continua a festeggiare come festa del SS Salvatore. In Sicilia sono molti i comuni che il 3 o la prima domenica di maggio, festeggiano il SS. Salvatore: Il Signore dell’Olmo a Mazzarino (CL), U Signuruzzu du Lacu a Pergusa (EN), SS Crocifisso a Siculiana (AG), SS Crocifisso a Castelvetrano (TP), SS Crocifisso a Catatafimi (TP), SS Crocifisso a Lascari (PA), il SS Crocifisso a Monreale (PA), tanto per citarne alcuni.
Sant'Alessandro- Barrafranca (EN)
A Barrafranca (EN) il 3 maggio si è sempre festeggiato il Santo patrono, sant'Alessandro. Residui arcaici della festa della Santa Croce si riscontrano nelle preghiere recitate in questo giorno.
Da tradizione, la mattina della festa del patrono i devoti vanno a portare il pane votivo al Santo presso la chiesa Maria SS della Stella, che ne custodisce un simulacro. Gli anziani ricordano che, anticamente, mentre si andava in chiesa, si recitava il rosario detto "Du miliuni", così chiamato perché si pronuncia un milione di volte la parola Gesù. Il rosario "Du miliuni" è composto di un solo mistero, intervallato da 10 invocazioni del nome di Gesù. A rosario concluso si sarà pronunciato 1000 volte il Santo Nome di Gesù. Anticamente il conto si teneva con dieci sassolini o dieci pezzetti di legno, lasciati cadere a terra. In seguito si utilizzò la corona del rosario.
Inoltre gli anziani chiamavano questo giorno "Giorno delle Santi Croci" in riferimento all’antica ricorrenza: infatti, nel rosario "Du miliuni" non viene citato sant'Alessandro ma viene invocato, per ben mille volte, il nome di Gesù. Non a caso vi era la consuetudine di scegliere come punto di partenza per il "viaggio al Santo" a sant'Alessandro proprio quelle "croci" (in dialetto cruciddi) che i nostri avi avevano costruito nelle strade di entrata al paese.

Rita Bevilacqua 

venerdì 1 maggio 2020

I Diavoli di maggio- ossia i VENTI che soffiano del mese di MAGGIO

(foto del web)

Anticamente i contadini siciliani sapevano che in questo mese nelle campagne soffiano venti più caldi e prorompenti, come il vento di "Sciroccu". Venti caldi ma fastidiosi che portavano con sé anche sabbia, rendendo difficile il lavoro dei campi.
L'antica credenza popolare vedeva in questi movimentati venti dei "diavoli" venuti sulla terra per dare fastidio agli uomini. L’antropologo palermitano Giuseppe Pitrè racconta nel saggio "Spettacoli e feste popolari siciliane" (1881) che il 1° maggio il vento di scirocco ed il turbine vengono scatenati dai diavoli e investono tutto quanto incontrano. Per aria è un vero inferno, e il fischio ed il rumore che si sente è fischio e rumore di Diavoli che si agitano e sconvolgono gli elementi della natura. E ciò deriva dall' avversione che i Diavoli hanno i Santi Filippo e Giacomo, la festa dei quali ricorre proprio in quel giorno (nell’antico calendario la festa cadeva il 1° maggio, poi passata all’11 maggio e con la riforma liturgica di Pio XII che al 1 maggio istituì la festa di San Giuseppe lavoratore, al 3 maggio). I contadini non appena si accorgono che il giorno piglia cattiva piega, si danno l’allarme con le parole: "Li Diavuli pri l’aria cci sù!" e corrono a premunirsi mangiando dell'aglio crudo.
Così i contadini mangiano aglio crudo e recitano formule deprecatorie, in attesa che ritorni l’ordine. Perchè proprio l'aglio? L'acutissimo odore di questo bulbo, spargendosi intorno, fa fuggire i diavoli!
Le donnette, poi, hanno una specie di formula deprecatoria in siciliano che per allontanare i Diavoli nel Primo di Maggio:
"Santu Filippu e Jàpicu biati,
Apostuli putenti e putintati,
Agnisdei, Agnisdei, Agnisdei,
L'ariu binidiciti ed annittati!"
(Traduzione: Santi Filippo e Giacomo beati,
apostoli potenti e potentati,
Agnello di Dio, Agnello di Dio, Agnello di Dio,
L’aria benedite e ripulite!).
Tra i tanti venti, molto temuto dai contadini siciliani era il "Mazzamuriddu". Questo "diavulu di vintu" , così come lo chiamavano contadini,  era un essere che ama spaventare la gente con vortici di vento (da qui il suo nome), tempeste e trombe marine.
Il Pitrè in  "Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano" (1889), alla voce "Esseri soprannaturali e meravigliosi", descrive u Mazzamuriddu come il 4 diavolo. Ecco cosa scrive l’antropologo siciliano:
«Tra' tanti e tanti diavoli che popolano l'inferno, la tradizione ne distingue sei (principali), ai quali dà nomi ed uffici speciali: 1 Lu Gifru o Cifaru o Capu Cifaru Zifaru; 2 Varsu cani; 3 Farfareddu o Farfaricchiu o Nfanfarricchiu; 4 Mazzamareddu o Ammazzamariddu ed anche Mazzapaneddu ; 5 'Ntantiddu o Tentaturi ; 6 Zuppiddu.»
Mazzamureddu ha proprio la missione di spaventare gli uomini sia coi vortici del vento, d'onde il  suo nome, sia coi terremoti, sia con le tempeste, sia con le trombe marine. Devasta, distrugge, uccide, trasporta a lunghe distanze; sicché il danno, e le carestie che ne sopravvengono sono innumerevoli. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA