martedì 15 dicembre 2020

Perché la tradizione vuole che a tavola il PANE NON VA MAI CAPOVOLTO


Tante le tradizioni popolari o meglio le superstizioni che la cultura popolare porta avanti da secoli. Tra queste ancora resiste quella che vuole che in tavola il PANE NON VA MAI CAPOVOLTO. Guai a farlo perché è sintomo di sventura. Secondo alcuni studiosi, questa superstizione può avere due spiegazioni: una religiosa e una storica.  

Il pane è da sempre considerando un cibo sacro, la primordiale forma di nutrimento, immancabile nell'alimentazione umana. Il pane era l’alimento cardine dell’alimentazione di tutta la famiglia, principale elemento di sostentamento, prodotto dalla trasformazione del grano e reso unico dalle mani dell’uomo. All'interno del nucleo famigliare, il pane assumeva un ruolo sacro, perché era garanzia di vita. I gesti che precedono e accompagnano il suo consumo sono ritualizzati e seguono una precisa. Il procedimento di trasformazione del grano in farina era un’attività femminile, come anche la successiva trasformazione della farina in pane. I compiti iniziarono a delinearsi: all'uomo compete la coltivazione della terra con lo scopo di raccogliere il grano, alla donna invece tocca il compito di trasformare "quei chicchi gialli come l’oro" in farina e poi in pane. La sua realizzazione e il suo consumo sono quindi oggetto di precisi rituali e di preghiere che scaturiscono in detti e proverbi.

(Foto del web)
Per la Chiesa esso rappresenta il Corpo di Cristo, che simboleggia l’unità della Chiesa. Capovolgere il pane, significherebbe capovolgere Cristo, non accogliendolo così in tavola. Inoltre nelle credenze religiose mettere sottosopra alcuni simboli cristiani, come ad esempio la croce capovolta, è portatore di sventure.Come fa notare Giuseppe Pitrè nella sua opera " Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano" in Sicilia il pane era considerato "Grazia di Dì", ossia una grazia dispensata dalla provvidenza divina e per questo era degno di gran rispetto: capovolgerlo significherebbe disprezzare la provvidenza e l’amore di Dio.

Questa superstizione va ricercata in un'antica leggenda che ha come protagonista la Francia di Carlo VII (1403-1461). La leggenda trae spunto dal lavoro dei boia che, a causa della politica troppo dura del sovrano, avevano un gran da fare. Questa professione così particolare fece scatenare l’odio del popolo francese e in particolar modo dei fornai, che decisero di non vendere più loro il pane, che rappresentava l’unica fonte di sostentamento delle classi più povere. Venderlo ai boia significava disprezzare quell'alimento sacro. Per far fronte a questo problema, Carlo VII emanò un editto col quale obbligava i fornai a vendere il pane anche ai boia, pena la decapitazione. Tale imposizione non fu ben accolta tanto che i fornai prepararono il pane destinato ai boia con i peggiori ingredienti. Inoltre per poterlo distinguerlo da quello destinato al popolo, questi pani erano capovolti e serviti loro sempre al contrario, mostrando così il disprezzo provato per il loro lavoro. Inoltre la leggenda vuole che, per ovviare a questo inconveniente, re Carlo VII imponesse ai boia di lavorare con un cappuccio in testa, così che non fossero riconosciuti. Leggende a parte, ci troviamo di fronte a una superstizione che si tramanda nel tempo e che ancora adesso continua a persistere.

Fonti: Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Palermo 1889; Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo De Gubernatis, anno I, 1893; www.eroidelgusto.it; www.napolimilionaria.it;  Fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

 

 

lunedì 19 ottobre 2020

“A spusa majulina nun si godi a cuttunina!" sentenziava un antico proverbio siciliano

Sposi barresi (foto archivio Collura)

Chi non ha mai sentito dire, almeno una volta, "A spusa majulina nun si godi a cuttunina!" (la sposa di maggio non si gode la cuttunina- coperta invernale) soprattutto quanto si prendeva la decisione di scegliere in quale mese sposarsi. Il proverbio si basa su un antico pregiudizio molto comune tra il popolo siciliano che vuole il mese di maggio esser nefasto per i matrimoni, in quanto prima dell’arrivo l’inverno, periodo in cui la sposa dovrebbe utilizzare la cuttunina, sarebbe potuto accadere qualche disgrazia. La cuttunina era una coperta imbottita che faceva parete del corredo di una sposa. Adesso questo proverbio suscita ilarità a chi lo ascolta, ma per buona parte del 1900 questo pregiudizio era ancora presente nella società siciliana e condizionava la scelta dei futuri sposi.

Si tratta di un proverbio antichissimo: l'antropologo siciliano Giuseppe Pitrè ne attesta la presenza già alla fine del 1700, citando il Vocabolario Siciliano di Michele Pasqualino (1785) alla voce "zita". Inoltre lo studioso nel suo volume "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano" riporta un passo dei "Cenni statistici sulla popolazione palermitana di Federico Cacioppo, Direttore della Statistica della città nel 1832, il quale scrive: «È osservabile una grande ripugnanza così nelle alte come nelle infime classi della società a contrarre matrimoni nei mesi di maggio ed agosto, riguardandosi come mal augurati, e di sinistro preludio alla vita dei coniugi; onde suol dirsi, nel linguaggio siciliano: La spusa majulina nun godi la curtina. Di fatto si scorge che i matrimoni in quei mesi sono scarsi e non han proporzione coi rimanenti dell’anno».

"Cuttunina" (foto dal web)

Alcuni studi hanno evidenziato l’origine romana di questo proverbio. "Mense malas Maio nubere" (a Maggio si sposano le cattive) recitava un’espressione latina, usata in senso proverbiale, riportata da Ovidio nel suo poema "I Fasti" a coronamento dell’osservazione che i matrimoni tra il 7 e il 9 maggio hanno sempre portato sfortuna. Da qui l’abitudine dei romani di aspettare giugno per sposarsi o anticipare ad aprile. La stessa usanza è riportata da Plutarco nelle "Quaestiones Romanae". Il motivo era dato dal non poter contrarre matrimoni durante i "Lemuria", ossia i giorni dedicati agli spiriti dei defunti (9, 11 e 13 maggio). In questi giorni di defunti uscivano dalle tombe e andavano a visitare la casa in cui erano vissuti. Secondo Ovidio i Lemuria furono istituiti da Romolo per placare lo spirito di Remo. Inoltre Plutarco fornisce diverse spiegazioni su questo pregiudizio: 1. perché maggio si trova tra aprile, sacro ad Afrodite e giugno, sacro a Era, entrambe divinità nuziali; quindi meglio anticipare o ritardare i matrimoni; 2 perché in questo mese si svolge la più importante cerimonia di purificazione; 3 perche molti romani nel mese di maggio celebrano sacrifici funebri per i morti; 4 oppure, come dicono alcuni, perché maggio ha preso il nome dai più anziani (maiores) e giugno dai più giovani (iuniores). E la giovinezza è più adatta al matrimonio. Al di là di qualsiasi ipotesi, questo pregiudizio ha influenzato per tanto tempo la scelta dei futuri sposi. Dalla seconda metà del '900 questo pregiudizio è andato gradualmente togliendosi, facendo del mese di maggio un mese adatto ai matrimoni, sia per la temperatura mite, sia per la convinzione che questo mese porti fortuna in quanto è dedicato alla Madonna.

FONTI: Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol.II, Palermo 1889; Dizionario di sentenze latine e greche a cura di Renzo Tosi, BUR Bizzoli classici greci e latini, 2017; Plutarco, Questioni  Romane, a cura di Nino Marinone, BUR classici greci e latini, 2007; Carla Fayer, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari sponsalia matrimonio dote, «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2005; https://www.romanoimpero.com. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

venerdì 2 ottobre 2020

"Attìa di l’ovu" esclamazione siciliana utilizzata dai padroni per richiamare al dovere i contadini

Cesto di uova (foto dal web)

Anni addietro parlando con alcuni anziani del mio paese (Barrafranca-EN) venni a conoscenza della storia di come i famigerati fratelli Benedetto e Raffaele Vasapolli, sacerdoti barresi di dubbia moralità, richiamavano al dovere i loro contadini. Avevano l’abitudine di scegliere personalmente "gli umini ppi la campagna", seguendoli nei lavori dei campi. Spesso per richiamarli al dovere esclamavano: "Attìa di l’ovu". Questo perché avevano l’abitudine di chiamare in disparte, uno per volta, i contadini e di offrirgli un uovo sodo dicendo: "Quest’uovo è per te, perché sei stato bravo. Però non dirlo agli altri, perché proverebbero invidia". Così i contadini, all'insaputa l’uno degli altri, mangiavano l’uovo sodo guardandosi bene di non farne parola. In questo modo i padroni potevano controllarli meglio poichè, appena rallentavano nel lavoro dei campi, gridavano appunto "Attìa di l’ovu". E siccome tutti avevano mangiato l’uovo, tutti riprendevano a lavorare più velocemente poiché il padrone li controllava. 

(Immagine presente nel romanzo "I fratelli Vasapolli" di Sarda

Questo racconto è riportato anche dal barrese professore Benito Sarda nel suo romanzo storico "I fratelli Vasapolli". Egli scrive: «- Attìa di l’ovu! E il grido di ammonimento si diffondeva in lontananza per raggiungere tutti i contadini che lavoravano anche nella vallata».

Contadini che lavorano nei campi (immagine del web)

Tale vicenda, che a Barrafranca (EN) ha come protagonisti i fratelli Vasapolli, è conosciuta in tutta la Sicilia e ha come protagonisti campieri o proprietari terrieri che, per sfruttare al massimo il lavoro dei contadini, inventarono l’esclamazione "Attìa di l’ovu", che tradotto in italiano diventa "A te dell’uovo"

Siamo nella Sicilia di fine Ottocento, primi del Novecento, dove le terre erano di proprietà di famiglie senza scrupoli che, pur di sfruttare al massimo la manovalanza contadina, le inventavano tutte. Per il siciliano "Attìa" è un richiamo che si usa verso persone inferiori o più piccole e viene usato per richiamare al dovere chi ha ricevuto un favore e sembra averlo dimenticato.

FONTI: Benito Sarda, I fratelli Vasapolli, 2ª edizione, Edizioni Terzo Millennio, 2001; Fonti orali di anziani barresi; http://www.lavalledeitempli.net; https://www.ilvomere.it. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

venerdì 25 settembre 2020

Tradizioni di una volta: la carta di dote o carta dotale

"Cascia con dote" (foto dal web)

Tra le tante pratiche di preparazione al matrimonio che si svolgevano a Barrafranca (EN) e in tutto il meridione vi era la compilazione della "carta di dote" o "carta dotale, tradizione attestabile fino agli anni ’50.  Era una consuetudine tipica della cultura meridionale mettere nero su bianco i beni che le rispettive famiglie donavano ai futuri sposi. La dote non era altro che l’insieme dei beni che la famiglia della sposa dava al marito e viceversa, creando così una base nella formazione della nuova famiglia. Conosciuta anche come "capitolo matrimoniale", "minuta", "carta dotale", il momento della sua stesura era, per le famiglie, un avvenimento molto importante perché si rendevano concreti gli accordi patrimoniali relativi alla dote. A garanzia dell’esecuzione dei patti sanciti, intervenivano i testimoni. Le famiglie più ricche andavano davanti al notaio, le famiglie contadine, invece, stipulavano la carta di dote a casa. La dote doveva essere proporzionata allo status sociale degli sposi. Nella società contadina siciliana era diffusa l’abitudine che la sposa portasse in dote al marito un piccolo appezzamento di terra, del bestiame o attrezzi utili al lavoro dei campi. Di obbligo invece era di portare in dote una cassapanca (cascia in siciliano) che conteneva il corredo, come lenzuola, camicie, grembiuli, biancheria e altro che la madre della sposa e la sposa stessa avevano cuto. Da qui il detto siciliano: "A robba ‘na cascia e a figghia ‘na fascia" (La dote nella cassa e la figlia nella fascia): difatti era consuetudine nelle famiglie contadine iniziare a preparare il corredo dopo la nascita di una figlia (ossia appena nata), corredo che sarebbe stato conservato nella cassapanca (cascia) in attesa del matrimonio. 

Matrimonio barrese anni '50

Nel giorno concordato tra le parti, a casa della ragazza, dove oltre ai genitori erano presenti anche zii, nonni e altri parenti, si compilava una lista scritta, in cui si elencava ciò che i rispettivi capifamiglia avrebbero consegnato ai due promessi sposi, all’atto del matrimonio; i parenti convenuti ne erano testimoni. Tra i nobili e i borghesi la lista, che assumeva valore di un vero e proprio contratto, si faceva su carta bollata. Il corredo della sposa era considerato a pezzi e questi formavano un gruppo, p. es. quattro camicie, quattro coperte, quattro paia di calzoni ecc. Si elencavano, in modo analitico, il mobilio, il corredo, come indumenti, lenzuola, le scarpe, le stoviglie. Tutto dipendeva dalla disponibilità economica della famiglia. Per lo sposo, l’elenco poteva contenere, oltre agli indumenti personali, un appezzamento di terra da lavorare, un alloggio autonomo, se non si andava a convivere nella casa paterna, un asino, un maiale vivo o macellato, animali da cortile, indumenti e un certo quantitativo di grano da macinare e in parte da seminare.

Carta di dote

Anni fa ebbi tra le mani la "Carta di dote" che mio nonno materno Giuseppe fece scrivere in occasione del matrimonio della sua primogenita: scritta su un foglio uso bollo, la carta è datata 13 gennaio 1951, scritta per mano della sorella Filippa. Ne riportiamo alcune parti (così come sono state scritte): «Carta di dote che fa alla prima figlia io qui sotto scritti… lasciano alla propria figlia… prima tutto £  100.000 dico cento mila tempo tre anni… secondo mobile un comò un comodino un moarro una tavola da mangiare… Biancheria 3 coltri una bianca una canalia una il colore che viene 3 paia di lenzuola 2 ricamate e uno con ricamo 6 paia di cuscini 3 pezzi di tovaglia una di casa una aspugna uno lavorato… uno materazzo 8 camicie… e la zita come si trova 2 abiti 2 sottane un partò 2 paia di scarpe ricevi i più distinti saluti.» 

FONTI: Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze  e pregiudizi del popolo siciliano, volume secondo, Palermo, 1889; Federica Proni, La dote e le sue carte, TiPubblica, 2017; Fonti orali (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

mercoledì 16 settembre 2020

“U Cappidduni” di Barrafranca- l’antica Chiesa Madre che non c’è più

Disegno Madrice Vecchia

Non tutti sanno che a Barrafranca (EN) fino agli inizi del 900 esisteva una chiesa Madre ubicata “a Batia”, Piazza Fratelli Messina, antecedente all’attuale Chiesa Madre. Di questa vecchia costruzione non rimangono altro dei racconti degli storici e di qualche anziano che ha avuto l’onore di vederne i ruderi.

Un’antica testimonianza dell’esistenza di questa chiesa c’è data dal sopra porta di Palazzo Butera a Palermo, che raffigura su tela com’era Barrafranca nel settecento. Forse di origine bizantina, già nel 1575 vi si seppellivano i morti. La chiesa fu riportata col nome di “Santa Maria del Soccorso”, ma era conosciuta dai barresi come “U Cappidduni”, sita in Piazza Monastero, attuale Piazza Fratelli Messina. Parzialmente distrutta dal terremoto del 1693, in un atto comunale del 1824 risulta che la chiesa era già diroccata nel 1727. Ricostruita solo parzialmente, fu destinata per decreto reale a ospedale dei poveri. Fu chiusa al culto nel 1765. 

Particolare del sopra porta di Palazzo Butera (PA)

Nel 1933 il podestà Mattina ne stabiliva la demolizione. Secondo lo storico barrese Angelo Ligotti, la chiesa esisteva già nel XIII sec. o addirittura risalirebbe ai re Normanni o membri della loro famiglia. Alcuni resti rimasero fino al secondo conflitto mondiale, che, con i bombardamenti del luglio 1943, ne sancirono la definitiva scomparsa.

La chiesa è riportata con il nome di Santa Maria del Soccorso, anche se i cittadini barresi la conoscevano come la “Chiesa du Cappidduni”.

Disegno interno Madrice Vecchia

La chiesa era formata da un’abside e da due navate laterali (planimetria uguale alla basilica bizantina di Sofiana), probabilmente bizantina. La facciata era posta a ponente, con un piccolo atrio che immetteva nell’entrata principale. Le colonne e gli archi furono aggiunti dagli Svevi (XIII sec.) come anche il campanile, posto nell’angolo destro della chiesa. Nel periodo Rinascimentale con i nobili Barresi il campanile subì un rifacimento e per la sua forma strana, fu detto “Cappidduni”. Qui si annidavano uccelli rapaci notturni. Con riferimento a ciò, è rimasto nella memoria dei più anziani il detto “Sì cchiù vecchia da pigula du Cappidduni”, proprio a indicare la vetusta età del campanile, rifugio dei rapaci.

In mancanza d’immagini fotografiche, la ricostruzione della chiesa è stata realizzata su indicazione del contratto di ristrutturazione stipulato dal sindaco Benedetto Giordano con il perito comunale Scarpulla il 1° novembre 1883.

Vi erano presenti: la tela duecentesca di“Maria degli Angeli”, un’immagine di san Francesco e di una figura imperiale riconducibile a Federico II. La tela è menzionata da Vito Amico il quale, descrivendola, dice che raffigurasse la Madonna circondata da angeli e da frati francescani riformati con la figura del Santo. La tela di Maria SS. della Purificazione, che si trova nell’attuale chiesa Madre e da cui prende il nome. Nel 1745 fu trasportata alla nuova chiesa Madre, da come si evince da un inventario redatto in quell’anno dal vescovo di Catania (mons. Pietro Galletti vescovo dal 1729 al 1757). Nel Dizionario del Nicotra, la tela è attribuita a Cateno Gueli, un artista di Monreale. Di recente la tela è stata attribuita a Filippo Paladini, il celebre pittore toscano morto nel 1614 a Mazzarino. L'attribuzione è dovuta al fatto che sul dipinto, prima del restauro, si distingueva una F e in seguito PAL. Vi era un altare della Madonna del Carmelo.

FONTI: Luigi Giunta, Breve cenni storici su Barrafranca, 1928; Vito Amico, Dizionario topografico della Sicilia, a cura di Gioacchino di Marzo, volume primo, Palermo, 1855; Francesco Nicotra, Dizionario illustrato dei comuni siciliani, Palermo 1907; Angelo Ligotti, Notizie su Convicino…, Palermo, presso la Società Siciliana per la Storia Patria, 1958; Angelo Ligotti, La penetrazione cristiana nella zona di Barrafranca, Piazza, Pietraperzia e Mazzarino secondo le recenti scoperte, Palermo 1965 (da cui sono tratte le foto); Liborio Centonze, Federico II di Svevia e Bianca Lancia da Mazzarino, Bonfirraro Editore; Liborio Centonze, Navigando i fiumi, vol. I, Edizioni Nova Graf, 2013. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

martedì 8 settembre 2020

I RITINI- Vestizione e sfilata di cavalli e carretti.

Barrafranca- Ritini 2015
Tra mille colori, suoni e musica, nel pomeriggio dell'8 settembre si svolge a Barrafranca (EN) la sfilata dei "RITINI" in onore della compatrona Maria SS. della Stella. Una tradizione lunga più di un secolo che richiama ogni anno la partecipazione di tanti barresi e non, tra quelli che partecipano con i loro cavalli e carretti pieni di grano da offrire alla Madonna e chi, invece, assiste curiosa alla "sfilata colorata dei "RITINI", così chiamata in riferimento "alle redini usati per impartire i comandi al cavallo".
Interessante la preparazione dei cavalli, detta in dialetto "vestiri", in cui si usano accessori ben precisi. I cavalli sono preparati con "varduna" (basti), su cui vengono sistemati "i visazzi" (bisacce) piene di grano. Sono addobbati con "pistulera" sistemata sopra la sgroppa del cavallo, con "cudera" posta nel sottocoda, con "battiscianchi" (pon pon colorati) posti ai fianchi del cavallo, con "tistera" (testiera) che ricopre la testa e il muso del cavallo, al cui vertice viene posto un pennacchio. Il  tutto completato di campane, specchietti, borchie e "giummi" ossia pon pon di lana colorata. E’ un’esplosione di giallo, verde e rosso, di riflessi di luce emanati dagli specchietti e dal luccichio delle borchie dorate, di suoni di campane, campanacci e "cianciane" (sonaglini). Vedere i cavalli bardati in questo modo, mette allegria e dà il senso di festa. Tanti i carretti, di mirabile fattura, restaurati e messi a nuovo per l’occasione, alcuni recanti l’effige della Madonna e altri le classiche scene siciliane, di pupi, dame e cavalieri. Di primo pomeriggio la banda musicale accompagna la commissione organizzatrice della festa a raccogliere per le vie cittadine il grano offerto dai fedeli, trasportato su un camioncino (anticamente era un carretto), mentre i cavalli e i carretti si ritrovano tutti davanti alla scuola Europa. Quando la raccolta è terminata e tutto è pronto, accompagnati dal suono festante della banda musicale, inizia la sfilata che terminerà davanti al salone della chiesa Maria SS. della Stella, dove sarà consegnato il grano offerto alla Madonna. Molti sono i curiosi che si recano nel salone a vedere la quantità di grano che si è accumulata nel magazzino, a far previsione sul raccolto e su quanto è stato donato dalla gente. Sono momenti di aggregazione sociale, di riscoperta del senso di appartenenza alla comunità, di giovialità e accoglienza che caratterizza noi siciliani.
Sotto potete ammirare le foto della vestizione e della sfilata dei "Ritini" della festa del 2015. Si ringraziano le  famiglie Petrino, Mulara e Stellino e per la loro collaborazione. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)
RITA BEVILACQUA 








(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

mercoledì 15 luglio 2020

Antico metodo per sapere di quanti giorni è formato ogni mese dell’anno


LUNARIO NOVO (foto dal web)
Nella società moderna, con l’avvento del calendario cartaceo, conoscere il numero di giorni che formano formato i mesi dell’anno è diventato molto semplice. Il primo calendario cartaceo si ebbe nel 1582, dopo la riforma del calendario Giuliano per opera di papa Gregorio XIII che lo istituì con la bolla papale "Inter Gravissimas" del 24 febbraio 1582. 
Con una breve del 3 aprile 1582, il Pontefice concesse ad Antonio Lilio il diritto esclusivo di pubblicare il calendario per un periodo di anni dieci. 
Nacque così una delle prime edizioni a stampa del nuovo calendario: il "Lunario Novo, Secondo la Nuova Riforma della Correttione dell'Anno riformato da Gregorio XIII NS",  stampato a Roma da Vincenzo Accolti nel 1582. Il Calendario Gregoriano (così chiamato in onore di papa Gregorio) entrò in vigore il 15 ottobre 1582.
La stampa cartacea del calendario presupponeva, però, la capacità di leggere. Immaginatevi, invece, quel vasto mondo di persone analfabete di cui era composta la società di allora.
Così la gente, soprattutto quella del mondo contadino, inventò un modo semplice per sapere quali mesi sono di 30 giorni oppure 31. Quest’antico metodo è riportato anche nell'opera "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano" di Giuseppe Pitrè.
(foto dal web)
Si parte chiudendo la mano sinistra a pugno. Scorrendo con un dito della mano destra la suddetta regione dorsale della mano sinistra si hanno i seguenti risultati: nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea del mignolo: gennaio (31 giorni), spazio interosseo tra mignolo e anulare: febbraio (28 o 29 giorni), nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea dell'anulare: marzo (31giorni), spazio interosseo tra l'anulare e medio: aprile (30 giorni), nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea del medio: maggio (31 giorni), spazio interosseo tra medio e indice: giugno (30 giorni), nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea dell’indice: luglio (31 giorni). Poi si passa al pugno della mano destra: nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea dell’indice: agosto (31 giorni), spazio interosseo tra l’indice e il medio: settembre (30 giorni), nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea del medio: ottobre (31 giorni), spazio interosseo tra medio e anulare: novembre (30 giorni), nocca formata dall'articolazione metacarpo-falangea dell’anulare: dicembre (31 giorni).
Fonti: https://it.cathopedia.org/; Giuseppe Pitrè "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano", vol. 3, Palermo 1889; fonti orali di alcuni contadini barresi. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)
RITA BEVILACQUA 

giovedì 18 giugno 2020

La devozione popolare dei giorni della settimana ai Santi


Secondo la pietà popolare, ogni giorno della settimana ha una sua particolare devozione: chi a Maria, chi a Cristo o ai Santi. Nei diversi giorni si svolgono pie pratiche riconosciute e approvate anche dalla Chiesa. Riporto lo schema tramandatomi dalla mia mamma (spesso cambia da paese e paese):
"Luni all’Armi purganti
Marti a Sant’Antoniu
Mircuri a San Giseppi
Jiuvi a Santa Rita
Venniri allu Crucifissu
Sabatu alla Madonna
Duminica allu Signuri."
Anime del Purgatorio (foto dal web)
La preghiera giornaliera alle Anime del Purgatorio che, nella devozione popolare, alcuni praticano il LUNEDÌ deriva da una pratica cristiana chiamata "Atto eroico di carità per le anime purganti", o "Vantaggio delle Anime del Purgatorio"che consiste in una spontanea offerta del fedele di tutte le sue opere soddisfat­torie (riparazione di offesa, danno o similari...) in vita, e di tutti i suffragi che può egli avere dopo morte, a vantaggio delle sante Ani­me del Purgatorio. Questo pio esercizio a pro dei defunti fu istituito dal Ven. P. Domenico di Gesù Maria, Carmelitano Scalzo, fondatore dell'Istituto del Consorzio dei Fratelli. L’atto fu approvato dal Pon­tefice Gregorio XV con la "Bolla Pa­storis Aeterni".

Fercolo di Sant'Antonio- Barrafranca
La devozione del MARTEDÌ a Sant'Antonio da Padova richiama la pratica cristiana conosciuta come "I 13 martedì di Sant'Antonio". Perché proprio il martedì? Perché, storicamente, i funerali del Santo furono celebrati il martedì successivo ala sua morte. Questa pratica consiste nella preparazione alla Festa del Santo dal tredicesimo martedì che precede la festa.

Fercolo di San Giuseppe- Barrafranca
La devozione  del MERCOLEDÌ a San Giuseppe inizia nella prima metà del secolo XVII, quando si fece strada in diversi paesi  una  corrente di pensiero che proponeva il mercoledì come giorno di devozione al Santo Patriarca. Secondo il teologo padre Gauthier "nessuno ne ha mai dato una spiegazione chiara e precisa". Egli ne documenta la presenza, concludendo che "questa tendenza verso il mercoledì è continuata dopo il 1650, e si può perfino sostenere che è diventata la più corrente". Fino al XVII sec molti predicatori cattolici sostenevano l’importanza di mantenere come giorno dedicato a San Giuseppe il Sabato, allora dedicato a Maria, proprio per non separare la Santa Famiglia. Benedetto XIV concedeva, nel 1745, ai Carmelitani scalzi della provincia di Catalogna di celebrare una messa votiva solenne di san Giuseppe tutti i mercoledì dell'anno; nel 1772, Clemente XIV autorizzava i medesimi a celebrare una seconda messa votiva solenne ogni mercoledì, secondo le esigenze dei fedeli. Indulgenze furono concesse all'Ordine dei carmelitani da Clemente XIII (nel 1762 e anni successivi) per una novena di mercoledì in preparazione alla festa di san Giuseppe. Pio VII, nel 1819, concedeva un'indulgenza per tutti i mercoledì dell'anno a chi recitava in quel giorno i dolori e le allegrezze di san Giuseppe. Con un indulto generale del 5 luglio 1883, Leone XIII attribuiva a ogni giorno della settimana un tema particolare, ratificando il mercoledì come il giorno di san Giuseppe in tutta la Chiesa, con Messa votiva corrispondente; la stessa condotta fu mantenuta dalla Congregazione dei Riti con un decreto del 3 giugno 1892. Con il "Motu Proprio" del 25 luglio 1920, in occasione del 50° anniversario della proclamazione di san Giuseppe come patrono della Chiesa universale, Benedetto XV richiamava "l'importanza di tutti i mercoledì e dei giorni del mese che gli è consacrato". Il nuovo Messale romano, pubblicato per la prima volta in latino nel 1970, contiene parecchie Messe votive, compresa quella in onore di san Giuseppe. Anche se nessuna di esse è messa in relazione con un giorno determinato della settimana, si deve riconoscere che, dopo più di due secoli, per un buon numero di cattolici il mercoledì rimane il giorno consacrato a san Giuseppe.
Fercolo Santa Rita- Barrafranca 
La devozione del GIOVEDÌ va a Santa Rita perché, secondo la tradizione, la Santa morì proprio di giovedì. Questa dedicazione richiama la pratica cristiana conosciuta come "I 15 giovedì di Santa Rita". Questa pratica consiste nel celebrare i 15 giovedì che precedono la festa della Santa con particolari pratiche. Sono stati istituiti allo scopo di commemorare i 15 anni che Santa Rita portò le stigmate.

Fercolo SS Crocifisso- Barrafranca
La devozione del VENERDÌ al Crocifisso è una conseguenza  della devozione del Venerdì Santo, giorno in cui Cristo morì in Croce.

La devozione del SABATO a Maria assume diverse valenze. La devozione alla Madonna ha ricevuto un forte impulso agli inizi del X secolo con la riforma monastica che ha dato forma alla civiltà medievale. Dopo quell'epoca divenne usanza generale di dedicare il Sabato alla Madonna. San Ugo, abate di Cluny, ordinò che nelle abbazie e monasteri del suo Ordine dell'Ufficio dovrebbe essere cantata e una Messa celebrata in onore di Maria Santissima il sabato.  A cominciare dal celebre predicatore J. Eck (1486-1543), che assegnava il sabato alla glorificazione congiunta "della vergine Madre, Anna e Giuseppe", nella prima metà del secolo XVII. Una possibile spiegazione potrebbe venire dal Vangelo. Non tutti credevano nella Resurrezione di Gesù. 
Fercolo Madonna- Barrafranca 
Solo Maria, in quel giorno di attesa tra la crocifissione e la resurrezione, non smise mai di credere che il Figlio sarebbe Resuscitato. In quel Sabato, dunque, su tutta la terra, solo lei personificato la Chiesa cattolica. Come il sabato precede e porta alla domenica, giorno del Signore, così la memoria di Maria di sabato precede e accompagna la celebrazione della Pasqua settimanale di Cristo. Il sabato è il giorno del sepolcro, il giorno del silenzio, il giorno in cui la Chiesa non celebra riti, perché il Cristo riposa nel grembo della terra. Il sabato è anche preparazione e introduzione alla domenica, simbolo e segno della festa del cielo, e la santissima Vergine è la preparazione e la via verso Cristo, porta dell’eterna felicità. Il culto del «sabato a Maria» ha avuto devoti di grande santità, come santa Caterina da Siena, san Francesco di Sales, sant'Alfonso de' Liguori, e altri.
Fercolo Cristo Risorto- Barrafranca
La DOMENICA è il "giorno del Signore". Per antonomasia è il giorno della Resurrezione di Cristo (Marco 16,2; Luca 24,1; Giovanni 20,1).

Fonti: "FILOTEA PER I DEFUNTI Sancta et salubris est cogi­tatio pro Defunctis exorare, ut a peccatis solvantur" (Lib. 2. Machab., XII, 46) 3ª edizione, Milano Tipografia della Santa Lega Eucaristica 1902; "Il mercoledì, il giorno di San Giuseppe" opuscolo, in francese, di padre Roland Gauthier (Montréal 1999); www.roccaporena.com; www.apostatisidiventa.blogspot.com; fonti orali. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

martedì 2 giugno 2020

Culto di Maria SS Odigitria nella tradizione siciliana


Particolare tela Maria SS Odigitria- Barrafranca (EN)
Il Messale proprio delle Chiese di Sicilia (il Messale, voluto dal Card. Salvatore Pappalardo, fu approvato dalla Santa Sede nel 1980 come Messale e Lezionario e nel 2004 come Liturgia delle Ore) assegna al martedì dopo la Pentecoste la festività liturgica di Maria SS Odigitria (dal greco antico ὸδηγήτρια, colei che istruisce, che mostra la direzione) patrona delle Chiese di Sicilia. Si ricorda Madonna d'Odigitria che spinse gli Apostoli, dopo la Pentecoste, ad andar per il mondo a portare la parola di Dio, simboleggiando quindi il cammino. Il nome di Odigitria fu dato dai fedeli di Costantinopoli ad una antichissima immagine della Vergine. Secondo l'agiografia questa reliquia sarebbe stata una delle tre icone mariane dipinte dall'evangelista Luca che Elia Eudocia (Aelia Eudocia, circa 401-460), moglie dell'imperatore Teodosio II, avrebbe ritrovato in Terra Santa e traslata a Costantinopoli.  Successivamente venne donata all'imperatrice Elia Pulcheria (399-435) perché fosse venerata in quella città. Pulcheria le eresse una Chiesa-santuario con annesso monastero nell'acropoli della città, nei pressi del palazzo imperiale: essa, col tempo, fu comunemente chiamata "degli odeghi" cioè delle guide, dall'appellativo dato ai monaci custodi del santuario che facevano da guide ai frequentatori del santuario, in maggioranza ciechi, venuti a chiedere la guarigione alla Madonna, o "dei condottieri", perché vi si recavano a invocare la protezione della Vergine i condottieri dell’esercito imperiale, prima di marciare contro i Turchi. 
Da ciò derivò alla Vergine raffigurata in quell'immagine l’appellativo di Odigitria. Secondo alcuni studiosi l’appellativo "odigitria" potrebbe far riferimento anche ad un antico prodigio attribuito alla Madonna di Costantinopoli che guidò due ciechi fino alla sua chiesa e fece loro recuperare la vista. Questa celebre immagine fu considerata la protettrice, la "conduttrice, guida della via "della città e di tutto l’impero d’Oriente.
Tela Maria SS Odigitria- Barrafranca (EN)
La testimonianza del ruolo di protettrice della Sicilia la troviamo a Roma in via del Tritone 82, sede dell’Arciconfraternita di S. Maria Odigitria dei Siciliani, presso l’omonima chiesa eretta dai confrati nel 1595.  Con Bolla di Sua Santità Paolo VI, del 12 gennaio 1973, fu elevata a "diaconia cardinalizia" e assegnata al Cardinale Salvatore Pappalardo; con Bolla di Sua Santità Benedetto XVI, del 20 novembre 2010, fu elevata al "titolo presbiterale cardinalizio" e assegnata al Cardinale Paolo Romeo. Nell'isola il suo culto è diffusissimo sin da tempi remoti, lascito del rito bizantino. La raffigurazione più diffusa nell'isola appare quella della Madonna col Bambino in braccio che poggia su una cassa tenuta a spalla da due basiliani. Essa riepiloga i momenti più salienti del "viaggio" dell'Odigitria bizantina che, secondo la tradizione leggendaria, al tempo dell'iconoclastia, chiusa da alcuni monaci basiliani dentro una cassa di legno e affidata al mare, finì per approdare sulle coste meridionali dell'Italia.. La devozione alla Vergine Odigitria fu portata in Sicilia nel sec. VIII da soldati siciliani dell'esercito imperiale che avevano partecipato ad una grande battaglia contro i Turchi, assedianti Costantinopoli con una flotta di 800 navi. La battaglia era stata vinta e la flotta distrutta in seguito ad una furiosa tempesta, sorta non appena i monaci del "Monastero degli odeghi" avevano condotto in processione sulle mura della città e posto di fronte al nemico la venerata icona della Vergine Odigitria recata a spalla. Per questo le immagini della Madonna di Costantinopoli o Madonna Odigitria (col titolo abbreviato in Itria o Idria), diffuse largamente in Sicilia, rappresentano una icona della Vergine recata a spalla da due monaci di rito bizantino, detti comunemente "vecchioni".
PS L’immagine sopra ritrae la tela della Madonna dell’Itria che si trova nell'omonima chiesa di Barrafranca (EN).

FONTI: Abbate Michele Giustiniani, "Dell'origine della Madonna di Costantinopoli, o sia d'Itria. E delle di lei traslazioni", Roma, 1656; siti web www.carthopedia.org; www.cattoliciromani.com (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

lunedì 1 giugno 2020

L’epidemia di "meningite cerebro-spinale" che colpì Barrafranca nel 1929


Il lazzaretto costruito in contrada Madunnuzza (quartiere Grazia)

Nel maggio del 1929 una gravissima epidemia si diffuse a Barrafranca (EN), la "meningite cerebro spinale".
La meningite cerebro-spinale, o meningite da meningococco, è un’infezione che colpisce le membrane (meningi) che rivestono e proteggono il cervello e il midollo spinale. Per questo è chiamata cerebro-spinale. Si manifesta frequentemente in modo epidemico all'interno di piccoli gruppi di bambini o adolescenti. I portatori sani del germe (ossia i soggetti in cui il batterio, presente nella mucosa della faringe, non determina malattia) possono disseminarlo per via aerea.
A Barrafranca l’epidemia infierì per alcuni mesi, soprattutto tra la popolazione più giovane (bambini e adolescenti), causando vittime e lesioni irreversibili, anche perché molti di quelli che guarivano restarono tragicamente segnati. Nonostante fossero nati sani, dopo il contagio alcuni bambini rimasero muti, oppure ritardati. Dai ricordi dei figli di chi ha riportato lesioni, si parla di circa 50 bambini. Secondo quanto scrive Salvatore Ciulla nel suo libro "Barrafranca negli anni Trenta", il dopo fu difficile anzi peggio, poiché si contavano in più centinaia di famiglie in profondo dolore per la morte di coniugi o impegnate nella disperata lotta di riportare alla vita attiva i propri cari sopravvissuti al male, ma tragicamente segnati e rimasti invalidi.
Era il 1929 ed eravamo in pieno fascismo. Ha governare in paese vi era il podestà, (una nuova autorità municipale dopo che erano state abolite le cariche di sindaco, assessore e consigliere comunale) nella figura del dott. Giuseppe Mattina (1880-1954) che si prodigò in tutti i modi per arginare un morbo impietoso che stata dilaniando il paese.
Personale del lazzaretto
All'inizio l'epidemia fu sottovalutata, convinti che fosse un male passeggero, tanto che le autorità locali non furono solerti nel de­nunciare il malanno che già stava attaccato tutti i quartieri. Accertata la gravità dell’epidemia, intervenne la M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) locale, comandata dal barrese prof. Antonio Tumminelli (1885- 1952) uno dei maggiori esponenti della politica barrese. Assieme all’Esercito, ai RR.CC. (Real Carabinieri) e alle Infermiere della Croce Rossa siciliana, il cui reparto femminile era diretto dalla contessa Monroj di Palermo, allestirono un ospedale da campo, il lazzaretto, in contrada Madunnuzza (quartiere Grazia), detta in seguito a ciò "U chianu 'i tenni". Le attrezzature erano state fornite dall’Esercito e dalla Croce Rossa. Coordinatore del servizio sanitario era l’ispettore medico comm. Crisafulli, inviato appositamente da Roma, «per cercare di arginare un male che falciava vittime a decine al giorno, e quando qualcuno miracolosamente si salvava, restava profondamente segnato nel fisico per sempre» (Salvatore Ciulla "Barrafranca negli anni Trenta"), mentre la parte amministrativa e di vettovagliamento era competenza del Comune. La situazione sanitaria era grave, tenuto conto della povertà in cui versava il paese. Tra le classi più povere l’igiene era scarsa, e questo aggravò la situazione. Si fece spalare il fango delle strade, e le pozzanghere infette erano trattate con calce bianca, per le sue proprietà altamente disinfettante, date dalla sua elevata alcalinità, come anche le povere case dei colpiti, le stalle e le masserizie.  Al fine di evitare maggiore contagio, furono chiuse le poche scuole che erano in paese e, per non creare allarmismi, si proibì di suonare dal campanile delle chiese 'a 'ngunìa e 'u marturiu che normalmente accompagnavano il trapasso di una persona, così come fu vietato anche 'u viaticu, cioè la somministrazione dei Sacramenti ai moribondi. Nessuno poteva superare la cinta sanitaria, se non munito di apposito lasciapassare.
Membri della M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale)
I medici e il personale sanitario dell’Esercito e della Croce Rossa fecero quello che umanamente era possibile. In questa dolorosa situazione, non mancò l’opera del dott. Angelo Ippolito (1871- 1966) che si era già distinto durante il Morbo della spagnola che colpì Barrafranca nel 1919. Fu sempre pronto a correre al capezzale di ammalati e moribondi. Altrettanto eroico furono i gesti di don Luigi Giunta (1881- 1966), parroco della chiesa Madre e cappellano del laz­zaretto pronto sempre a portare in tutte le ore agli ammalati il conforto della fede e del Sacramento e di don Calogero Marotta (1865-1943) cappellano della chiesa Grazia. Secondo quanto scrive Salvatore Ciulla
«… cercare di arginare un male che falciava vittime a decine al giorno, e quando qualcuno miracolosamente si salvava, restava profondamente segnato nel fisico per sempre.
Riportiamo i nomi degli appartenenti alla M.V.S.N. (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) così come sono stati elencati dal prof. Cateno Marotta: Salvatore Marotta; Alfonso Geraci; Benedetto Gagliano; Antonio Verdura; Angelo Marotta; Marco Scarpulla; Luigi Monteforte; Giuseppe Mastrobuono, capo manipolo; Ignazio Gagliano; Luigi Virone; Salvatore Corso; Francesco Bizzetti; Antonio Costa; Arcangelo Scarpulla; Antonio Bevilacqua; Carmelo Accardi; Giuseppe Ingala; Giovanni Veloce; Filippo Calì.

FONTI: Salvatore Licata, Carmelo Orofino "Barrafranca, la storia, le tradizioni, la cultura popolare", 3ª edizione, 2010; Salvatore Ciulla "Barrafranca negli anni Trenta", parte prima, 1987; fonti orali di alcuni anziani barresi; fonti fotografiche: Salvatore Marotta e Santina Zafarana. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

giovedì 28 maggio 2020

L’antico detto siciliano: "Pira nun facisti e miraculi vò fari?"



Era di uso comune tra il popolo siciliano parlare attraverso motti, proverbi, detti, che esprimessero, in modo conciso e diretto, un pensiero comune tramandato da generazione a generazione. Di queste locuzioni popolari la lingua siciliana ne è ricca. Interessante a tal senso è il detto "Pira nun facisti e miraculi vò fari?", che i più anziani barresi ricorderanno sicuramente.
Il detto è usato per indicare l'inettitudine di una persona che, nonostante i progressi raggiunti in società, rimane gretto e sordo ai bisogni altrui. Chi nasce in un modo non può mancare di essere della stessa natura di chi l’ha messo al mondo. 
Sentitolo spesso pronunciare dalle persone anziane, ho cercato di capirne il significato. Cosi mi è stata raccontata un’interessante leggenda che, come tutte le storie tramandate oralmente, ha diverse varianti.
Si racconta che un contadino aveva un albero di pere che da tempo non faceva più frutti. Allora decise di abbatterlo e venderlo come legname. Trovandosi un giorno in chiesa a chiedere un miracolo che non arrivava, riconobbe in quella Croce il suo pero. Vedendo che non aveva fatto il miracolo, esordì in questa maniera:
«Pira nun facisti e miraculi vo’ fari?
Cu nasci di natura ‘un pò mancari
Piru ca nascisti ‘ntra ‘n ortu ‘ccillenti
e mai a lu munnu pira avisti a fari,
ora ca nun sì cchiu piru, cruci ti prisenti
e la genti ti veni a adurari.
Ma iu ca ti canusciu, ti dicu piru senti:
pira nun facisti e miraculi vò fari?
Dissi Sant Agustinu veramenti:
cu nasci di natura ‘un pò mancari.»
(Traduzione: Pere non facesti e miracoli vuoi fare? Chi nasce di natura non può mancare. Pero che nascesti in un orto eccellenti mai al mondo pere facesti, ora che non sei più pero, croce ti presenti e la gente ti viene ad adorare. Ma io che ti conosco, ti dico pero senti: pere non facesti e ora miracoli vuoi fare? Disse Sant’Agostino veramente: Chi nasce di natura non può mancare).
Classica leggenda siciliana, mista di sacro e di profano, che cerca di spiegare il carattere spesso inetto dell’individuo, ricorrendo a elementi semplici e devozionali della cultura contadina. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

martedì 19 maggio 2020

Le fave e il loro significato simbolico di legame trai i vivi e i morti



Baccelli e fave 
Uno degli ortaggi più consumati in primavera è la fava. Un antico detto siciliano recitava: "Aprili favi chini, s’un su ccà su a li marini" indicando il periodo in cui le fave sono pronte: ad aprile nelle zone marine, mentre nelle zone interne nel mese di maggio. Essiccata, la fava è consumata tutto l’anno. 
La pianta delle fave è originaria dell'Asia Minore e da secoli è ampiamente coltivata per l'alimentazione umana e animale (foraggio).
Oltre ad essere un cibo prezioso, nella cultura agro-pastorale siciliana le fave hanno un importante significato simbolico. La fava, dal latino faba e dal greco kúamoi, era una pianta molto rispettata dagli antichi perché ritenuta consacrata agli Dei. 
Fave
Per le popolazioni egizie erano considerate come il simbolo dell'incarnazione tanto da chiamare "campo di fave" il luogo in cui le anime soggiornavano in attesa di reincarnarsi. I sacerdoti egiziani la consideravano immonda, poiché mangiandolo, si sarebbero cibati delle carni dei propri cari. Ai discepoli di Pitagora, come agli adepti dei culti orfici, era assolutamente vietato mangiare fave perché equivaleva a divorare i propri genitori e significava interrompere il ciclo della reincarnazione. I pitagorici provavano nei loro confronti un vero e proprio orrore poiché la fava ha uno stelo privo di nodi grazie al quale essa diventa un mezzo di comunicazione privilegiato tra l’Ade e il mondo degli uomini, strumento quindi di metempsomatosi (passaggio da un corpo ad un altro) e del ciclo delle nascite. Secondo Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) le fave contenessero le anime dei morti, e per questo motivo erano utilizzati nei Misteri di Dionisio e di Apollo, come pure nei vari culti dei morti. Per i greci le fave restavano il simbolo "dei defunti" ma si dovevano mangiare poiché trasmettevano la loro benedizione.  Per i romani erano sacre ai morti e si ritenevano che ne custodissero le anime. Ne facevano grande uso, anche crude con l’intero baccello (quando erano molto tenere). Però le consumavano soltanto in occasione di riti funebri. 
Fiori 
Probabilmente queste credenze erano legate ai caratteri botanici della pianta: il fiore di fava, da cui si sviluppano i baccelli contenenti i semi, è bianco maculato di nero, colore insolito nel mondo vegetale e per tradizione associato alla morte. Le macchie nere sui petali dei fiori delle fave erano considerate un lugubre segno dell'aldilà, anzi si pensava che le anime vaganti dei defunti albergassero proprio in quei fiori maculati. Nell’antica Roma, durante le celebrazioni della Dea Flora, protettrice della natura, vere e proprie cascate di fave erano riversate come buon auspicio sulla folla in festa. I Romani la offrivano inoltre col lardo agli dei e il nome stesso della gens Fabia sembra derivi da questo legume.
Nella cultura agro-pastorale siciliana questo legume rappresentava un tramite con aldilà, il legame tra i vivi e i morti. Difatti in molte parti della Sicilia le fave secche, bollite da sole o con minestre, sono uno dei cibi tradizionali dei morti, che è consumato nel giorno della Commemorazione dei Defunti (2 novembre). Nel libro "Spettacoli e feste popolari siciliane" l’antropologo Giuseppe Pitrè riporta l’antica credenza secondo cui «gli antichi le fave contenevano le anime dei loro trapassati: sacre ai morti essendo le fave, e credendosi di vedere ne’ fiori di essi certi caratteri neri neri (indizi di lutto) che si attribuivano agli dei infernali». Esiste una relazione molto stretta tra i morti e il cibo: cibarsi delle fave nel giorno in cui si ricordano i propri cari, è come ricostituire una continuità tra la vita e la morte. In quanto simbolo delle anime defunte, cibarsi delle fave è come un incorporare i morti, facendoli così rinascere.
L’importanza simbolica delle fave nella vita quotidiana dei siciliani si evidenzia anche in alcuni riti propiziatori che le donne mettevano in atto al momento della nascita di un neonato.  In "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano", Pitrè riporta una filastrocca che nel Circondario di Modica veniva recitata dalla donna più anziana presente al momento della nascita di un bambino, dopo aver posto nove fave nere sul tavolo. Serviva per accattivarsi la simpatia delle "Donne di fora" benigne: 
"Favi favuzzi,
Ch'hannu niuri li 'uccuzzi!
E viniti cu lu suli,
Cà la menza è priparata;
E faciemucci anuri
A lu figghiu e a la figghiata!".
Altro rito propiziatorio con le fave, legato al sesso del nascituro, si svolgeva durante la festa di san Giovanni battista (24 giugno). Presa una fava cruda, una donna gravida andava a posizionarsi davanti alla porta, buttando la fava all’indietro: se il primo a passare dopo l’atto era un uomo il bimbo sarebbe stato maschio, se era una donna sarebbe stata femmina. La prova andava ripetuta tre volte.

FONTI: Plinio il Vecchio, "Naturalis Historia", 78-79 d.C., liber XVIII, 117-118; "Dizionario mitologico, ovvero Della favola, storico, poetico, simbolico, ec…" opera del sig. abate Declaustre tradotta dal francese, Napoli, 1834, tomo III; Giuseppe Pitrè, "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano", vol.II, ristampa all'edizione di Palermo 1870-1913; Giuseppe Pitrè, "Feste popolari siciliane", Brancato Editore, 2003. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA