lunedì 15 luglio 2019

Simbolo e significato dello SCAPOLARE della Madonna del Carmelo



Scapolare della Madonna del Carmelo di Barrafranca
Il 16 luglio la Chiesa ricorda la Beata Maria Vergine del Monte Carmelo. Uno dei simbolo della devozione alla Madonna del Carmelo è lo Scapolare, conosciuto anche come  "Abitino".
Gli Scapolari fanno  parte di tutta quella serie di oggetti devozionali che i fedeli utilizzavano come espressione di spiritualità e devozione. Secondo il Concilio Vaticano II, fa parte di quei "segni sacri per mezzo dei quali, a imitazione dei sacramenti, sono significati, e vengono ottenuti per intercessione della Chiesa effetti soprattutto spirituali" (SC 60).

Alcuni scapolari -Madonna del Carmelo Barrafranca
In realtà lo Scapolare è un grembiule usato dai monaci durante il lavoro per non sporcare la tonaca. Messo sulle scapole, lo scapolare è una parte dell’abito che usano ancora oggi i carmelitani. La grande devozione verso la Madonna del Carmelo spinse i monaci a realizzare degli scapolari molto piccoli, di dimensioni ridotte per permettere ai fedeli di partecipare alla spiritualità del Carmelo e alle grazie a esso legato, tra i quali il privilegio sabatino.
Lo scapolare attuale è fatto di due quadratini di tessuto marrone o nero, uniti da cordoni, che hanno da una parte l’immagine di Nostra Signora del Carmelo e dall'altra il Cuore di Gesù, o lo stemma dell’Ordine carmelitano. È una miniatura dell’abito carmelitano, per questo è di tela.
Lo scapolare è un segno esteriore di devozione mariana che consiste nella consacrazione alla Santissima Vergine Maria, attraverso l’iscrizione all’Ordine carmelitano. Dicevamo che chi lo indossa ottiene il "privilegio Sabatino". 

Statua lignea della Madonna del Carmelo di Barrafranca
Il 16 luglio 1251 la Madonna apparve al vecchio generale dell'Ordine Carmelitano, San Simone Stock (il quale L'aveva pregata di dare un privilegio ai Carmelitani), porgendogli uno scapolare, detto comunemente "Abitino", dicendogli: «Prendi figlio dilettissimo, prendi questo scapolare del tuo Ordine, segno distintivo della mia Confraternita, privilegio a te e a tutti i Carmelitani. CHI MORRA' RIVESTITO DI QUESTO ABITO NON SOFFRIRA' II. FUOCO ETERNO; questo è un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza di pace e di patto sempiterno».
Nella sua bolla chiamata Sabatina, papa Giovanni XXII afferma che chi usa lo scapolare sarà rapidamente liberato dalle pene del Purgatorio il sabato successivo alla sua morte. I vantaggi del privilegio sabatino sono stati confermati dalla Sacra Congregazione delle Indulgenze il 14 luglio 1908.(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

lunedì 8 luglio 2019

"Facemu la vuluntà di Diu!" tratto dalla novella LU TISTAMENTU DI LU SIGNURI


Molti dei detti popolari siciliani derivano da leggende, novelle, per lo più inventante, a sfondo moralistico. Uno di questi è il detto “Facemu la vuluntà di Diu!” che spesso riteniamo. Esso è la parte finale della novellina (come la definisce l’antropologo Pitrè) LU TISTAMENTU DI LU SIGNURI. Scrive il Pitrè: «Lu tistamentu di lu Signuri è una spiritosa novellina contro le varie classi della società dei piccoli comuni, tra le quali solo i villici son condannati a lavorare per forza e rassegnarsi.» Riportiamo testualmente la novella così come è riportata nella raccolta del Pitrè “Fiabe e leggende popolari siciliane”:
 «Si raccunta ca quannu Gesu Cristu avia a lassari stu munnu, era cunfusu pinsannu a cu'avia a lassari tuttu chiddu chi cc'è supra la terra.
Pensa pensa: “A cui lu lassu?... Si lu lassu a li galantomini, li nobili comu arrestanu ? E si lu lassu a li nobili, li galantomini comu fannu?... E li viddani? E li mastri?...
'Nsumma 'un sapeva comu fari. 'Nta stu mentri vennu e vennu li nobili.
– Signuri, ora ca vi nn'aviti a jiri di stu munnu, pirchì 'un lassati a nui tutti cosi?
Pigghia lu Signuri, e cci li spartiu a iddi. Li parrini appurannu ca lu Signuri si nni avia a jiri, curreru puru iddi:
– Signuri, nenti nni lassati a nui ora ca vinnjiti ?
– Troppu tardu vinistivu, cci arrispusi lu Signuri, pirchì già li spartivi a li nobili.
– Oh  diavulu!, si vutaru li parrini.
– Dunca a vuàtri vi lassu lu diavulu, cci dissi lu Signuri.
Vennu e venna li monaci:
– Signuri, nenti nni lassati ora ca vinnjiti?
– Nenti, pirchì già li spartivi a li nobili.
– Oh diavulu! Dissiru li monaci.
– E lu diavulu si lu pigghiaru li parrini.
– Pacenza! dicinu li monaci.
–E a vuàtri vi lassu la pacenza, dici Gesu Cristu.
A li mastri cci iu a l'aricchia ca lu Signuri si nni avia a jiri; e subitu curreru.
– Signuri, a nuàtri chi nni lassati?
–Troppu tardu: pirchì già spartivi tutti cosi a li nobili.
– Oh ! diavulu!, dicinu li mastri.
– Si lu pigghiaru li parrini.
 – Pacenza!
 – Si la pigghiaru li monaci.
– Chi 'mbrogghia!si vòtanu li mastri.
– E a vuàtri vi lassu la 'mbrogghia.
Venniru li viddani, mischini, tutti affannateddi e affritti.
 – Signuri, vi nni aviti a jiri, e nenti nni lassati? Spartitini la terra.
– Troppu tardu, pirchì già la spartivi a li nobili.
– Oh diavulu!
– Si lu pigghiaru li parrini.
– Pacenza!
– Si la pigghiaru li monaci.
– Chi 'mbrogghia
– Si la pigghiaru li mastri!
– Facemu la vuluntà di Diu!
– E a vuàtri vi lassu la vuluntà di Diu!.
E pi chistu è ca a stu munnu li nobili cumannanu, li parrini sunnu ajutati di (da) lu diavulu, li monaci fannu la pacenza, li mastri fannu 'mbrogghi e li vidda ni hannu a fari lu setti a forza e hannu a fari la vuluntà di Diu.» (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

venerdì 5 luglio 2019

Li ZORBI siciliani e l’antico detto “Cu lu tempu e cu la pagghia maturano li zorbi”


I frutti dei Sorbi
Durante una conversazione con un carissimo amico, amante delle tradizioni barresi e siciliane, esce fuori un'antico detto siciliano, conosciuto anche a Barrafranca: "Cu lu tempu e cu la pagghia maturano li zorbi" (col tempo e con la paglia maturano le sorbe), volendo con ciò indicare che certe decisioni hanno bisogno di tempo per "maturare". 
Cosa sono questi zorbi e da dove deriva il detto?
Nonostante sia antica come è antico il mondo, la pianta dei zorbi siciliani "il sorbo", nome scientifico Sorbus domestica, è poco conosciuta. 
E' un albero originario dell’Europa Meridionale, assai diffuso dalla Spagna alla Crimea e dalla Crimea all’Asia Minore. Sporadicamente cresce in Italia, così come in Sicilia, noto come "pedi di zorbi". 
Grazie al botanico svedese Carl von Linné nel 1758 il  sorbo siciliano fu inserito nel Systema Naturae come "sorbus domestica". Questa pianta si trova nei boschi e nelle radure, anche se alcuni esemplari possono essere coltivati nei giardini. Può raggiungere i 20 mt. . di altezza e i fiori sono ermafroditi e presentano un colore biancastro, riuniti in corimbi cupoliformi. All'inizio dell’autunno sono sostituiti da pomi di forma tondeggiante o piriforme. Le sorbe diventano commestibili solo quando sono molto mature. Ne esistono diverse varietà: c’è la "sorba-mela" rossa, grossa, meno aspra delle altre; quella "a pera" o "a zucchetta", di colore bianco o rosso pallido. Si raccoglie in settembre ottobre. 
Per l' uso alimentare si dispongono su uno strato di paglia ad ammezzire: dopo alcune settimane assumono un colore bruno e divengono commestibili. Da qui deriva il  vecchio detto: "cu lu tempu e cu la pagghia maturano li zorbi". Il legno di colore rosso scuro, pesante, duro è usato in agricoltura per la costruzione di utensili, pali, paletti, ecc., ed è anche ricercato dai tornitori e dagli incisori per opere di pregio.
Sorbe mature
I frutti hanno proprietà diuretiche, astringenti, antinfiammatorie, lenitive. In questo caso, è consigliabile utilizzare frutti ancora più acerbi. Questa capacità medicinale deriva dal fatto che possiedono dei principi attivi, sostanze peptiniche e tanniniche, acidi organici (specialmente acido sorbico, malico, citrico e tartarico), sorbitolo (o sorbite)
Nelle leggende popolari la sorba matura è considerata un portafortuna. Anticamente i contadini  piantavano piante di sorbo vicino casa, convinti che tenessero lontano gli spiriti maligni. Anche consegnare alcuni frutti ancora acerbi è di buon auspicio. Tutto merito delle sue intense e brillanti sfumature rosse che si credeva avessero la magica virtù di allontanare povertà e miseria. E ancora oggi i boschi di sorbo sono ritenuti propizi per la caccia, perché riserva di abbondante selvaggina.
I Romani apprezzavano la tenerezza e la dolcezza della sorba, soprattutto nella preparazione di liquori. Ce ne parla Virgilio nelle "Georgiche" dov’è illustrata l’usanza di far fermentare questo frutto col grano, ottenendo la "cerevesia", una bevanda alcolica simile al sidro.
Il sorbo era un albero sacro per le popolazioni celtiche che lo piantavano ovunque per proteggere le case e lo ritenevano una manifestazione terrena dell’altro mondo.
Sia i Celti che i Germani consideravano il suo frutto, al pari della mela, nutrimento degli dei e amuleto contro i fulmini e i sortilegi: appenderne un ramo fruttifero sull'uscio di casa ne assicurava la protezione. Ricavata dal sorbo era anche "la mano di strega", una sorta di bacchetta da rabdomante per trovare i metalli preziosi. Pare che i druidi, prima di una battaglia, accendessero fuochi con il legno di sorbo e pregavano chiedendo agli spiriti di partecipare alla battaglia. Nei paesi nordici il sorbo, oltre ad essere usato per fabbricare i bastoni dei pastori, serviva anche per proteggere il bestiame dalle epidemie. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA