lunedì 19 ottobre 2020

“A spusa majulina nun si godi a cuttunina!" sentenziava un antico proverbio siciliano

Sposi barresi (foto archivio Collura)

Chi non ha mai sentito dire, almeno una volta, "A spusa majulina nun si godi a cuttunina!" (la sposa di maggio non si gode la cuttunina- coperta invernale) soprattutto quanto si prendeva la decisione di scegliere in quale mese sposarsi. Il proverbio si basa su un antico pregiudizio molto comune tra il popolo siciliano che vuole il mese di maggio esser nefasto per i matrimoni, in quanto prima dell’arrivo l’inverno, periodo in cui la sposa dovrebbe utilizzare la cuttunina, sarebbe potuto accadere qualche disgrazia. La cuttunina era una coperta imbottita che faceva parete del corredo di una sposa. Adesso questo proverbio suscita ilarità a chi lo ascolta, ma per buona parte del 1900 questo pregiudizio era ancora presente nella società siciliana e condizionava la scelta dei futuri sposi.

Si tratta di un proverbio antichissimo: l'antropologo siciliano Giuseppe Pitrè ne attesta la presenza già alla fine del 1700, citando il Vocabolario Siciliano di Michele Pasqualino (1785) alla voce "zita". Inoltre lo studioso nel suo volume "Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano" riporta un passo dei "Cenni statistici sulla popolazione palermitana di Federico Cacioppo, Direttore della Statistica della città nel 1832, il quale scrive: «È osservabile una grande ripugnanza così nelle alte come nelle infime classi della società a contrarre matrimoni nei mesi di maggio ed agosto, riguardandosi come mal augurati, e di sinistro preludio alla vita dei coniugi; onde suol dirsi, nel linguaggio siciliano: La spusa majulina nun godi la curtina. Di fatto si scorge che i matrimoni in quei mesi sono scarsi e non han proporzione coi rimanenti dell’anno».

"Cuttunina" (foto dal web)

Alcuni studi hanno evidenziato l’origine romana di questo proverbio. "Mense malas Maio nubere" (a Maggio si sposano le cattive) recitava un’espressione latina, usata in senso proverbiale, riportata da Ovidio nel suo poema "I Fasti" a coronamento dell’osservazione che i matrimoni tra il 7 e il 9 maggio hanno sempre portato sfortuna. Da qui l’abitudine dei romani di aspettare giugno per sposarsi o anticipare ad aprile. La stessa usanza è riportata da Plutarco nelle "Quaestiones Romanae". Il motivo era dato dal non poter contrarre matrimoni durante i "Lemuria", ossia i giorni dedicati agli spiriti dei defunti (9, 11 e 13 maggio). In questi giorni di defunti uscivano dalle tombe e andavano a visitare la casa in cui erano vissuti. Secondo Ovidio i Lemuria furono istituiti da Romolo per placare lo spirito di Remo. Inoltre Plutarco fornisce diverse spiegazioni su questo pregiudizio: 1. perché maggio si trova tra aprile, sacro ad Afrodite e giugno, sacro a Era, entrambe divinità nuziali; quindi meglio anticipare o ritardare i matrimoni; 2 perché in questo mese si svolge la più importante cerimonia di purificazione; 3 perche molti romani nel mese di maggio celebrano sacrifici funebri per i morti; 4 oppure, come dicono alcuni, perché maggio ha preso il nome dai più anziani (maiores) e giugno dai più giovani (iuniores). E la giovinezza è più adatta al matrimonio. Al di là di qualsiasi ipotesi, questo pregiudizio ha influenzato per tanto tempo la scelta dei futuri sposi. Dalla seconda metà del '900 questo pregiudizio è andato gradualmente togliendosi, facendo del mese di maggio un mese adatto ai matrimoni, sia per la temperatura mite, sia per la convinzione che questo mese porti fortuna in quanto è dedicato alla Madonna.

FONTI: Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol.II, Palermo 1889; Dizionario di sentenze latine e greche a cura di Renzo Tosi, BUR Bizzoli classici greci e latini, 2017; Plutarco, Questioni  Romane, a cura di Nino Marinone, BUR classici greci e latini, 2007; Carla Fayer, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari sponsalia matrimonio dote, «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2005; https://www.romanoimpero.com. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

venerdì 2 ottobre 2020

"Attìa di l’ovu" esclamazione siciliana utilizzata dai padroni per richiamare al dovere i contadini

Cesto di uova (foto dal web)

Anni addietro parlando con alcuni anziani del mio paese (Barrafranca-EN) venni a conoscenza della storia di come i famigerati fratelli Benedetto e Raffaele Vasapolli, sacerdoti barresi di dubbia moralità, richiamavano al dovere i loro contadini. Avevano l’abitudine di scegliere personalmente "gli umini ppi la campagna", seguendoli nei lavori dei campi. Spesso per richiamarli al dovere esclamavano: "Attìa di l’ovu". Questo perché avevano l’abitudine di chiamare in disparte, uno per volta, i contadini e di offrirgli un uovo sodo dicendo: "Quest’uovo è per te, perché sei stato bravo. Però non dirlo agli altri, perché proverebbero invidia". Così i contadini, all'insaputa l’uno degli altri, mangiavano l’uovo sodo guardandosi bene di non farne parola. In questo modo i padroni potevano controllarli meglio poichè, appena rallentavano nel lavoro dei campi, gridavano appunto "Attìa di l’ovu". E siccome tutti avevano mangiato l’uovo, tutti riprendevano a lavorare più velocemente poiché il padrone li controllava. 

(Immagine presente nel romanzo "I fratelli Vasapolli" di Sarda

Questo racconto è riportato anche dal barrese professore Benito Sarda nel suo romanzo storico "I fratelli Vasapolli". Egli scrive: «- Attìa di l’ovu! E il grido di ammonimento si diffondeva in lontananza per raggiungere tutti i contadini che lavoravano anche nella vallata».

Contadini che lavorano nei campi (immagine del web)

Tale vicenda, che a Barrafranca (EN) ha come protagonisti i fratelli Vasapolli, è conosciuta in tutta la Sicilia e ha come protagonisti campieri o proprietari terrieri che, per sfruttare al massimo il lavoro dei contadini, inventarono l’esclamazione "Attìa di l’ovu", che tradotto in italiano diventa "A te dell’uovo"

Siamo nella Sicilia di fine Ottocento, primi del Novecento, dove le terre erano di proprietà di famiglie senza scrupoli che, pur di sfruttare al massimo la manovalanza contadina, le inventavano tutte. Per il siciliano "Attìa" è un richiamo che si usa verso persone inferiori o più piccole e viene usato per richiamare al dovere chi ha ricevuto un favore e sembra averlo dimenticato.

FONTI: Benito Sarda, I fratelli Vasapolli, 2ª edizione, Edizioni Terzo Millennio, 2001; Fonti orali di anziani barresi; http://www.lavalledeitempli.net; https://www.ilvomere.it. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA