sabato 25 gennaio 2020

La strage del gennaio 1848 dove persero la vita anche tre uomini barresi


Copertina del libro 
Il 1848 fu un anno particolare per la Sicilia: fu l’anno dei moti contro la tirannia di re Ferdinando II di Borbone. In questa situazione si svolse una delle più efferate stragi sulle quali le autorità si affrettarono a stendere un velo di silenzio: la strage di Porto Empedocle (AG), avvenuta nella notte tra il 25 gennaio e il 26 gennaio del 1848 nella Torre di Carlo V che, sotto il regno Borbonico, venne utilizzata come prigione. Oggi è adibita a centro artistico - culturale.
Alla Torre è legata la pagina più nera della storia di Porto Empedocle, poiché fu teatro del massacro di 114 detenuti inermi, reso noto dal celebre scrittore Andrea Camilleri nel romanzo “La strage dimenticata” (Sellerio) dove l’autore, traendo spunto dalle cronache di Baldassare Marullo e dai racconti della nonna Carolina, ricostruisce l’eccidio di 114 detenuti nell’antica Torre della Borgata Molo, vecchio nome di Porto Empedocle, soppressi nel 1848 nel timore che si unissero ai rivoltosi anti-borbonici. Alla fine del libro sono elencati centoquattordici nomi che non compaiono in nessuna lapide del nostro risorgimento, centoquattordici caduti nella rivolta del 1848 in Sicilia.
Torre di Carlo V (Porto Empedocle)
In questo modo il maggiore borbonico Ignazio Sarzana (comandante molo di Girgenti) si liberò in un sol colpo di 114 detenuti, soffocandoli e bruciandoli vivi in una cella comune. Tra questi detenuti persero la vita anche tre uomini barresi: BONINCONTRO GIUSEPPE di 48 anni (al numero 15 dell’elenco), D'ANGELO BENEDETTO di 29 anni (al numero 35 dell’elenco), RINALDI GIOVANNI di 33 anni (al numero 88 dell’elenco), trucidati senza sapere che era scoppiato un '48.
I 114 detenuti, che per molti studiosi erano di più, furono uccisi perché, essendo scoppiata la rivolta a Palermo ed essendoci alcuni familiari dinanzi alla torre che ne reclamavano la libertà, il maggiore Sarzana per evitare la rivolta, ordinò di metterli assieme nella fossa comune. Per impedire poi che le loro grida si sentissero fuori, fece chiudere l’unica presa d’aria della fossa, non prima di aver fatto gettare dentro tre petardi. Fumo e mancanza d’aria soffocarono gli sventurati. Fu una strage orrenda. Lasciamo la parola allo scrittore Camilleri: «Il maggiore Emanuele Sarzana comandava il presidio della Torre alla Borgata Molo.
Elenco morti

Giorno 25 gennaio 1948 arrivò la notizia che De Majo se ne era andato dal palazzo reale di Palermo e che De Sauget con i suoi cinquemila soldati stava faticosamente ritirandosi su Messina. (...) Sicché a rappresentare il regno borbonico in Sicilia rimanevano il forte di Castellammare, la Cittadella di Messina, la Torre della Borgata Molo, e qualche altra fortificazione sparsa, che praticamente non erano in condizioni di svolgere un’azione comune, ammesso che ne avessero sentito la voglia. I borbonici rimasti in Sicilia erano in sostanza degli assediati. E a rendere concreto l’assedio, al tramonto del giorno 25, una folla di un centinaio di persone si spinge, vociando, sotto le mura della Torre. È sbagliato credere che gli abitanti marinari della Borgata avessero deciso che il vento della rivoluzione teneva: in mezzo a quella gente i borgatanti veri e propri saranno stati una trentina, la maggior parte dei quali “saccaroli”, vale a dire trasportatori di sacchi, quelli che in paese svolgevano il lavoro più duro ed erano i meno pagati. “In quei giorni erano arrivati molti forastieri” contava mia nonna. E si spiega: parenti e amici avevano avuto tutto il tempo di correre dai loro paesi alla Borgata per organizzare la liberazione dei forzati, e molti di questi forestieri, approfittando dell’ammaino generale, erano arrivati armati (…) 
Elenco morti
Quando i carcerati sentono le voci da fuori, eccitatissimi, non sapendo precisamente quello che sta succedendo ma comprendendo che comunque sia qualcosa si muove a loro favore, si mettono a fare un gran chiasso. Di fronte a questa situazione, Sarzana, contrariamente a quanto pensa Marullo, non perdette la testa. Capì subito che se tutti gli uomini gli servivano per parare il pericolo esterno, bisognava che a sorvegliare i carcerati non restasse manco un soldato. Ordinò quindi che a botte, a colpi di calcio di fucile, a catenate, tutti i forzati sparsi per la Torre fossero obbligati a calarsi nella fossa comune (…) Lì ammucchiati i carcerati iniziano a ribellarsi e far baccano. I soldati allora isolano l’unica via d’uscita, la scala che era dentro al cilindro. Ciò significava chiudere l’unica presa d’aria della fossa comune (…) Inizia una sparatoria tra i soldati e la folla fuori la torre. La sparatoria si allunga nel tempo. Questo basta però perché i forzati nella fossa vengono a trovarsi senza aria. I forzati allora fanno voce da disperati e si accalcano, tanto da dar pressione alla grata (…) Il maggiore capisce il pericolo e l’unica cosa da fare è alleregire il peso che versa sulla grata. Così comanda ai suoi soldati di lanciare tre petardi nella fossa e di isolare di nuovo la scala. Capisce che, così facendo viene a mettersi in una botte di ferro: se i carcerari muoiano, nessuno potrà sostenere che in lì c’era una volontà di fare una strage (…)».
Il danno è compiuto: 114 detenuti muoiono. Ancora più grave della strage, fu il silenzio delle autorità dell’epoca che occultarono la sorte tragica di questa povera gente. Gli assassini e i complici silenziosi fecero la loro carriera sotto i Borbone prima, e poi nell’Italia unita. Il maggiore Sarzana fu promosso e trasferito al comando della piazza militare di Licata, come governatore del real Castello a mare S. Giacomo.
(Fonti: Andrea Camilleri, La strage dimenticata, Sellerio Editore, Palermo 1984; www.agrigentoierieoggi. it). (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

martedì 31 dicembre 2019

1 gennaio: l’antica tradizione della chiesa Itria di festeggiare il BAMBINELLO

Altare chiesa Maria SS. dell'Itria Barrafranca
Pochi sanno che a Barrafranca (EN) in tempi lontani il 1° gennaio si festeggiava il Bambinello. Andiamo per ordine. Il 1 gennaio la Chiesa festeggia Maria SS. Madre di Dio. Il Martirologio Romano recita: “Nell'ottava del Natale del Signore e nel giorno della sua Circoncisione, solennità della santa Madre di Dio, Maria: i Padri del Concilio di Efeso l’acclamarono Theotókos (colei che genera Dio), perché da lei il Verbo prese la carne e il Figlio di Dio abitò in mezzo agli uomini, principe della pace, a cui fu dato il Nome che è al di sopra di ogni nome”. In questo giorno si festeggia la maternità di Maria, l’aver procreato il Figlio. 
Per queste ragioni fino alla prima metà del ‘900 a Barrafranca (EN) si svolgeva una particolare tradizione conosciuta come LA FESTA DEL BAMBINELLO. Difatti il popolo appella il 1 gennaio come “A festa du Bamminu”.
Bambinello (foto G.Vicari) 
Dallo storico barrese don Luigi Giunta apprendiamo  che negli archivi parrocchiali del 1761 era registrata una tradizione che si svolgeva nella chiesa Maria SS. dell’Itria il 1° gennaio. Questa devozione era ancora praticata ai tempi in cui lo storico pubblica il suo libro “Brevi cenni storici su Barrafranca” (1928).  Ecco cosa scrive: “Trono in un documento di questo arch. parr. che nel 1761 si praticava in questa chiesa di vestire un bambino povero nel capodanno in onore del bambino Gesù, ma s’inibiva al sacerdote che lo guidava di non portare cotta e stola. Questa devozione si pratica ancora oggi”.
La festa si svolgeva in chiesa. Alla Celebrazione Eucaristica partecipava un bambino povero, vestito con tunica bianca, a simboleggiare Gesù Bambino, e veniva portato in processione per le vie adiacenti alla chiesa. Al termine al bambino venivano donati viveri di prima necessità per lui e la sua famiglia. Probabilmente con lo scoppio della seconda guerra mondiale, tali festeggiamenti scomparvero. Di questa tradizione non rimane che il ricordo delle persone più anziane, le quali ricordano anche la presenza, sempre nella chiesa dell’ Itria, di una statuetta in cartapesta  di Gesù Bambino dell’altezza di 60 centimetri circa, esposta in un ultimo altarino vicino all’ altare maggiore dove, attualmente, si trova la porta d’accesso ai locali parrocchiali.
Quando alla fine degli anni ’50 si decise di eliminare  le statue realizzate in cartapesta, materiale facilmente deteriorabile, anche questo  particolare simulacro fu tolto. A differenza di alcune statue presenti in altre chiese barresi, non fu buttato o bruciato, ma regalato ad una parrocchiana, che lo sistemò e conservò con devozione. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 


lunedì 16 dicembre 2019

Storia e significato della NOVENA

Novena anno 2015
La "novena" è una pratica devozionale che consiste nel recitare preghiere e rosari, ripetuti per nove giorni consecutivi.
La pratica trae ispirazione  dagli Atti degli Apostoli dove viene descritto come la Madonna e gli Apostoli pregavano in modo assiduo nei nove giorni compresi tra l’Ascensione di Gesù  e la discesa in terra della Spirito Santo durante la Pentecoste.
Questa pratica usata come preparazione a molte feste religiose, è conosciuta soprattutto come pratica natalizia.
A Natale la novena inizia il 16 e finisce il 24 dicembre, durante la quale, ricordando i nove mesi di Gesù nel seno materno, si preparano i fedeli  alla nascita di Gesù.
Alle pratiche liturgiche che si svolgono in tutte le chiese, si mescolano tradizioni popolari come le nuvere" , tipiche non solo di Barrafranca ma anche dei paesi limitrofi.
Queste si preparano, anzi si conzano lungo le strade del paese.
Novena anno 3013
Appoggiati sui muri delle case, le nuvere sono dei tempietti realizzati in legno e con il tetto fatto di canne e  rivestito di alloro. Il tutto è decorato con arance, mandarini che si appendevano tra le foglie dell’alloro, collane fatte di lupini.
Anticamente all'interno veniva creato uno sfondo con un drappo pregiato, tante volte di color celeste e veniva realizzato, con un tavolo ricoperto di tovaglie pregiate, un altarino, sopra il quale veniva appesa un’immagine dell’Immacolata Concezione, sostituita la sera del 24 con l’immagine della Santa Famiglia. Sull'altarino venivano appoggiati frutti tipici invernali come arance, melagrane, melacotogne, inoltre venivano messe delle candele e qualche volta  anche degli angioletti di gesso. Al centro dell’altarino veniva posizionato un cesto ricoperto con un telo bianco, a cui era legata una colomba di carta o anche vera. 
Dal 16 al 24 le novene venivano cantate dalla gente del quartiere accompagnati dalla banda musicale e un tempo anche dai “ciarammellari” , attualmente dai zampognari .
Il 24 sera la gente si preparava a veder nascere “u bamminu” recandosi da una novena all'altra per assistere a tutte le novene come si fa per il giro dei “sepolcri” il Giovedì Santo,  al rito della nascita di Gesù. Quando tutto è pronto, il  filo che tiene legata la colomba al telo bianco che ricopre il cesto posto al centro dell’altarino, viene tirato scoprendo una statuetta del Bambino Gesù, mentre la musica suona a festa. Una bambina che simboleggia la Madonna, solleva il cesto con la statuetta e inizia una piccola processione per alcune strade adiacenti alla novena, seguita dalla banda musicale e dai fedeli recanti in mano delle candele. La preparazione delle "nuvere" coinvolgeva diverse famiglie, tutte impegnante a realizzare la novena più bella. "Nuvere" simili venivano preparate anche nelle case e attorno alle "figuredde" delle strade. Ed anche le "nuvere" casalinghe venivano cantate, la sera, da gruppi di comari, che modulavano delle lunghe filastrocche.
Con gli anni le cose sono cambiate: l’ambientazione interna è stata sostituita dall'allestimento di un  presepe, alcune volte realizzato con personaggi viventi; i canti sono eseguiti solo dalla banda musicale  mentre dei bimbi, accompagnati da alcuni anziani cantano il ritornello tra un brano all'altro. Le stesse novene sono costruite da poche persone che si accollano i costi di realizzazione.
Il simbolismo è antico, anche se nelle moderne novene si è andato perdendo, e mescola elementi cristiani a elementi non cristiani: la novena in sé  rappresenta la grotta dove nasce il Bambino Gesù, tanto che i primi otto giorni all'interno stava appeso il quadro dell’Immacolata (Maria non aveva ancora partorito), sostituito il 24 con quello della Santa Famiglia (Gesù ormai è nato); gli angeli appoggiati sopra l’altare rappresentano "l’Annunciazione a Maria"; le candele simboleggiano la luce divina; l’alloro che ricopre il tempietto simboleggia il carattere regale del Bambino che, anche se è nato in una grotta, è pur sempre un Re e per questo diventa simbolo di gloria e infine la colomba richiama sia la purezza di quella donna che aspetta il Bambino, sia l’Ascensione di Cristo al Cielo.
Ma il richiamo a elementi precristiani si riscontrano soprattutto nell'utilizzo della frutta, tipica di una società basata sull'agricoltura e dedita a pratiche legate a divinità "ctònie". Basti ricordare che, prima della venuta di Cristo, in tutto l’impero Romano il 15 dicembre si svolgevano cerimonie in onore del dio Conso, dio del grano (vi avanti verrà spiegato). La frutta come le arance, i fichi d’india, le melagrane, le melacotogne erano i frutti che, nel periodo invernale, offriva la terra, per cui era normale che venissero offerti come ringraziamento alla  divinità per ciò aveva elargito. Anche l’alloro, come pianta sempre verde, era molto utilizzata nei riti precristiani
Ma riutilizzati in senso cristiano il loro simbolo cambia: la melagrana, con il suo interno pieno di chicchi, diventa il simbolo della chiesa i cui chicchi simboleggiano tutti i cristiani; la melacotogna che, anticamente veniva usato per realizzare la marmellata che anticamente era confezionata a cubetti e, per la forma e il colore che assumeva, ricordava l’oro che i Re Maggi portarono al Bambino; l’arancia rappresenta il frutto che, in una famosa canzone natalizia tipica barrese, l’ortolano porta in dono a Gesù; infine i lupini, con cui si realizzano le collane appese nella novena, rappresentano il pane dei poveri.
Fino agli anni precedenti al secondo conflitto mondiale le novene iniziavano al mattino e culminavano alla sera, con la banda musicale che percorreva la “via dei Santi” dove negli incroci, limitatamente alla “via dei Santi”, venivano conzate” le novene intorno a cui, in un’atmosfera devota ma festiva, la gente si riuniva per pregare e cantare, senza alcuna partecipazione del clero.
Dopo un periodo in cui scomparvero, furono riprese alla fine degli anni ’70 con la preparazione non più in casa ma solo nelle strade,  indipendentemente dal percorso della "via dei Santi". Pian piano andarono modificandosi, agli altarini furono sostituiti i presepi non erano più presente i zampognari (ritornati da alcuni anni), si suonavano solo la sera, era scomparso lo spirito gioioso di una volta. Attualmente si è cercato di ripristinare il vecchio modello di novena, ma i tempi cambiano e le nuove generazione non riescono a cogliere il sapore antico di questa tradizione.
Riprendendo il pensiero dello storico Angelo Scarpulla, «Questa festa o novena era, in sintesi, l’evoluzione cristiana di culto che duemila anni fa era la Consulia di inverno». Come tutte la feste cristiane, anche questa ha un sub strato precristiano. Quando il cristianesimo fece la sua comparsa, antichi riti legate alle varie divinità greche e romane erano ormai consolidati nel tempo. Ai nuovi predicatori cristiani venne difficile estirpare il vecchio,  per cui in certi casi fu più facile innestare la nuova fede nei riti esistenti. Questo è il caso, appunto, dell’origine delle novene. I romani il 15 dicembre festeggiavano la "Consulia" invernale, ossia cerimonie in onore del dio Conso, venerato a Roma già dal periodo monarchico, specialmente nel mondo agricolo come dio dei granai e dell’approvvigionamento. I riti, che avevano un significato propiziatorio, si svolgevano davanti ad un altare che, per l’occasione veniva dissotterrato e addobbata, per poi essere risotterrato dopo le cerimonie. Questo particolare richiama, nel mondo agricolo, “il seme del grano” che, durante la semina, veniva sotterrato per poi riaffiorare nel tempo della germinazione. A dimostrazione di ciò, possiamo portare come esempio il termine dialettale con cui a Barrafranca indichiamo il verbo apparecchiare: "conzari" che, come spiega il già citato Scarpulla, deriva dall'operazione di apparecchiare l’ara in onore del dio Conso.
Comunque sia, il significato della "NOVENA" rimane CRISTIANO, come attesa della nascita del Cristo Redentore. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 


mercoledì 4 dicembre 2019

Orazione dialettale a Santa Barbara, invocata contro i lampi e i tuoni

Santa Barbara 
Il 4 dicembre la Chiesa festeggia Santa Barbara, protettrice degli artificieri, dei vigili del fuoco, dei minatori.
Il culto di Santa Barbara è molto popolare per il fatto di essere considerata protettrice contro i fulmini, il fuoco e la morte improvvisa. Il culto apparve , prima in Oriente e poi in Occidente, nell’VIII secolo, 
La vita di Barbara è contenuta in una passio del VII secolo, probabilmente di origine egiziana (Dino Carpanetto, Santi e Patroni, Istituto Geografico De Agostini Novara, 2010). Per quanto riguarda le notizie biografiche, si possiedono scarsissimi elementi: il nome, l’origine orientale, con ogni verisimiglianza l’Egitto, e il martirio. 
Nata nel 273 d.C. in Asia Minore (l’attuale Turchia), a causa della sua bellezza, il padre Dioscoro fece costruire una torre per rinchiudervi la bellissima figlia richiesta in sposa da moltissimi pretendenti. Ella, però, non aveva intenzione di sposarsi, ma di consacrarsi a Dio. Prima di entrare nella torre, non essendo ancora battezzata e volendo ricevere il sacramento della rigenerazione, si recò in una piscina d’acqua vicino alla torre e vi s’immerse. Per ordine del padre, la torre avrebbe dovuto avere due finestre ma Barbara ne volle tre in onore della S.ma Trinità. Il padre, pagano, saputo della professione cristiana della figlia, decise di ucciderla, ma lei, passando miracolosamente fra le pareti della torre, riuscì a fuggire. Nuovamente catturata, il padre la condusse davanti al prefetto Marciano che, dopo inauditi supplizi, la condannò al taglio della testa; fu il padre stesso che eseguì la sentenza, secondo l’agiografia, il 4 dicembre del 290 d.C. Subito dopo un fuoco discese dal cielo e bruciò completamente il crudele padre, di cui non rimasero nemmeno le ceneri. Forse da questo scaturì l’idea di porre, fin dal Trecento, Santa Barbara a protettrice degli artiglieri, dei minatori, dei vigili del fuoco e di quanti corrono il rischio di essere uccisi dal fuoco e dai fulmini e celebrare la sua festa, appunto, il 4 dicembre. Il culto della martire fu assai diffuso in Italia, probabilmente importato durante il periodo dell’occupazione bizantina nel sec. VI, e si sviluppò poi durante le Crociate. Il culto religioso di santa Barbara fu introdotto in Sicilia dai Cavalieri dell'Ordine Teutonico attorno al XIII secolo che Santa Barbara era oggetto di culto profondo in seno all'Ordine, il quale aveva salvato le sue reliquie nel 1242.
Riportiamo un’orazione che le donne siciliane recitavano contro i temporali. La paura dei tuoni e dei lampi era molto diffusa tra le donne siciliane  e veniva vista come una punizione divina. Per questo era importante invocare la Santa che, durante la sua agonia nominava il nome di Dio.
Ne esistono diverse versioni e della stessa versione diverse varianti. Questa è stata raccolta a Barrafranca (EN) da Rita Bevilacqua
“Barbaredda 'ncapu un munti stava.
Trunava e lampiava
e sempi u‘nnomi di Dì 'nnuminava!”
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

lunedì 4 novembre 2019

Barrafranca 4 novembre 1921. Onoranze al Milite Ignoto


Barrafranca 4 nov. 1921
In occasione della ricorrenza del 4 novembre, pubblichiamo questa foto d’epoca (archivio cav. Giovanni Collura), che ritrae i festeggiamenti del 4 novembre 1921 a Barrafranca (EN), quando l’attuale monumento ai Caduti, da tutti conosciuto come “U pupu”, sito in piazza Regina Margherita, non era stato eretto, cosa che avvenne nel 1935. Come si vede dalla foto, i festeggiamenti avvenivano davanti al sagrato della chiesa di san Francesco, sita in piazza Regina Margherita, alla presenza delle autorità civili e militari, dei frati francescani, dei reduci della guerra e di tutta la popolazione che, con fervore, ricordava i caduti della "Grande Guerra". Tutta la popolazione accorreva a ricordare i suoi figli morti per la patria durante la “Grande Guerra" (1914-1918). 
Opuscolo
Dagli archivi storici si evince che in quel 4 novembre 1921, le onoranze al "Milite ignoto", così denominata la ricorrenza,  furono pronunciate dall’avv. GIUSEPPE GUIDO LOSCHIAVO (1899-1973), pretore del Mandamento a Barrafranca dal settembre 1921 al luglio 1922.
Esiste un opuscolo datato 4 novembre 1921 e stampato a spese del comune di Barrafranca, dal titolo: ONORANZE AL MILITE IGNOTO- Parole pronunciate il 4 novembre 1921 dall’avv. GIUSEPPE GUIDO LOSCHIAVO pretore del Mandamento (una copia è in mio possesso). Anche la nostra cittadina diede il suo contributo di sangue alla Patria, il cui elenco è riportato nelle lapidi dell’attuale monumento. Fu durante il periodo fascista che si decise di erigere, anche a Barrafranca, un monumento ai caduti della “Grande Guerra”, a perenne ricordo del loro sacrificio. Il monumento fu inaugurato il 3 novembre 1935. 
Ne riportiamo l'elenco inciso nella lepide:
Sott.Ten. LIGOTTI ANGELO fu Liborio. Caporali: BARBAGALLO LUIGI; FARACI GAETANO; GAGLIOLO ALFONSO; LA ZIA SALVATORE; PANEPINTO ANGELO; TAMBE’ ALESSANDRO. 
Soldati:  AIELO GAETANO; ASSENNATO SALVATORE; AVOLA ROCCO; BEVILACQUA GIUSEPPE; BEVILACQUA LIBORIO; BONAFFINI GIUSEPPE; BONAFFINI LUIGI; BONAFFINI SALVATORE; BONFIRRARO ANTONINO;  BONFIRRARO GAETANO; BONFIRRARO GIUSEPPE di Giuseppe; BONFIRRARO GIUSEPPE di Salvatore; BONFIRRARO GAETANO; BONFIRRARO PIETRO; BOTTIGLIERI GIUSEPPE; BRUNO ALESSANDRO; CAMPOCHIARO MATTEO; CASSERO PIETRO; CASTRONUOVO SALVATORE; CENTONZE PAOLO;  COLLURA ONOFRIO; COSTA GIUSEPPE; COSTA SALVATORE; CRAPANZANO GIUSEPPE; CUCCHIARA GIOVANNI; CUCCHIARA GIUSEPPE; D’ALEO GIUSEPPE; D’ALESSANDRO VINCENZO; D’ANGELO GAETANO DIDIO SPAGNUOLO SALVATORE; FALLUZA AGOSTINO; FARACI GIUSEPPE; FARACI GIOVANNI; FARACI SALVATORE; FAUDONE ALESSANDRO; FERRIGNO GAETANO; FRANCHINO GIUSEPPE; GAGLIANO SALVATORE; GAGLIOLO VINCENZO; GALIANO BENEDETTO; GERACI CALOGERO; GIAMMUSSO SALVATORE;  GIUNTA ANGELO;  GIUNTA FILIPPO;  GIUNTA GIOVANNI; GIUNTA PAOLO; GUGLIARA FILIPPO; IUDICA ANTONINO;  LA DELFA GIUSEPPE; LA LOGGIA GIOACCHINO; LANZA GIUSEPPE;  LA PORTA GIUSEPPE; LA ZIA FILIPPO; LA ZIA SALVATORE;  MADONIA FILIPPO;  MARCHI’ COSIMO; MASOTTA GIOVANNI di Filippo;  MASOTTA GIOVANNI di Ignazio;  MASSA PASQUALE;  MASUZZO SEBASTIANO; MATTINA LIBORIO;  MESSINA CALOGERO;  MUNDA LUIGI; NICOLETTI SALVATORE;  NICOSIA MARIANO; PALMERI GIUSEPPE; PANEPINTO ANGELO; PANEPINTO GIUSEPPE; PATERNO’ ALESSANDRO; PIAZZA GIOVANNI;  PITRELLA FILIPPO;  RAZZA GIOVANNI;  RAZZA MARIANO; RUSSO ALESSANDRO;  SANSONE LUIGI;  SEGGIO LUIGI;  SICILIANO ALESSANDRO;  SIMONTE ANTONINO; SPATARO CALOGERO; SPATARO GIUSEPPE di Calogero; SPATARO GIUSEPPE di Steliario; STRAZZANTI SALVATORE;  TERRANOVA LUIGI;  TORTORICI MICHELE; TUMMINO GIACOMO;  TUMMINO GIUSEPPE;  VERDURA PIETRO. 
CURIOSITÀ: la festa del 4 novembre ricorda l’entrata in vigore del cosiddetto armistizio di Villa Giusti (Padova) del 1918, con il quale in Italia si fa coincidere, convenzionalmente, la fine della Prima Guerra Mondiale e fu istituita già nel 1919 per commemorare e rendere onore ai tanti commilitoni caduti per la patria.
Milite Ignoto: le Nazioni che avevano partecipato alla Grande Guerra vollero onorare i sacrifici e gli eroismi delle collettività nella salma di un anonimo combattente caduto con le armi in pugno. In Italia l’idea di onorare una salma sconosciuta risale al 1920 e fu propugnata dal Generale Giulio Douhet. Il disegno di legge fu presentato alla camera italiana nel 1921. Approvata la legge, il Ministero della guerra diede incarico a una commissione di percorrere i campi di battaglia per raccogliervi undici salme d’impossibile identificazione, fra le quali la sorte ne avrebbe designata una, da tumulare in Roma sul Vittoriano, sotto la statua equestre del “Padre della Patria”. La commissione esplorò attentamente tutti i luoghi nei quali si era combattuto. Fu scelta una salma per ognuna delle seguenti zone: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, tratto da Castagnevizza al mare. Le undici salme ebbero ricovero, in un primo tempo, a Gorizia, di dove furono poi trasportate nella basilica di Aquileia il 28 ottobre 1921. Quivi si procedette alla scelta della salma destinata al glorioso riposo sull’Altare della patria. La scelta fu fatta da una popolana, Maria Bergamas di Trieste, il cui figlio Antonio aveva disertato dall’esercito austriaco per arruolarsi nelle file italiane, ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo potesse essere identificato. La bara prescelta fu collocata sull’affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati al valore e più volte feriti, fu deposta in un carro disegnato dall'architetto Cirilli. Le altre dieci salme rimaste ad Aquileia furono tumulate nel cimitero di guerra che circonda il tempio romano. Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma e lungo il tragitto folle d’italiani poterono esprimere i loro sentimenti di ringraziamento. La cerimonia ebbe il suo epilogo nella capitale. Il 4 novembre 1921 ascese all’Altare della patria, divenendo il simbolo di ogni combattente caduto in guerra. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 



giovedì 31 ottobre 2019

“I bambini e i doni dei morti”. La festa siciliana dei murticiddi.


(foto dal web)
Il 2 novembre ricorre la “Commemorazione dei defunti”, chiamata dai siciliani la Festa dei Morti. La festività fu celebrata per la prima volta dalla Chiesa nel 998, per disposizione di Odilone di Mercoeur, abate di Cluny, che ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 novembre come giorno solenne per la “Commemorazione dei defunti”.
In Sicilia la commemorazione è l'occasione per commemorare i propri cari e ricordarli. E’ anche l’occasione per spiegare e insegnare ai bambini a non aver paura della morte. In questo giorno si rinnova il senso di appartenenza a una famiglia, grazie al ricordo di chi non c’è più che, generandoci, ha permesso la continuità e lo sviluppo della famiglia stessa. Elemento cardine di questa giornata sono i “doni” che i cari defunti portano ai bambini, ossia il regalo che, la notte tra l'uno e il due novembre, i cari defunti portano ai bambini sempre se questi si fossero comportati bene durante l'anno. La tradizione vuole che in questo giorno i defunti, avendo voglia di rivedere i loro famigliari, abbiano l’opportunità di uscire dalle loro tombe e di andare, mentre tutti dormono, nelle case dei famigliari a visitarli e a lasciare dei doni ai bimbi. 
Pupi di Zucchero
Non c’era bambino che la mattina del 2 novembre, impaziente di cercare, non andasse in giro per casa il regalo dei morti, nascosto con astuzia dalle madri, in posti meno sospettosi. Si rovistava anche nei posti più strani della casa, finché non saltava fuori il regalo. In cosa consisteva il tanto atteso regalo dei Morti? Questo poteva essere un vassoio di dolci, come taralli, frutta Martorana o Pupi di zucchero, di frutta secca, oppure giocattoli o abiti.  
Antonio Fragale, professore di Antropologia ed esperto di tradizioni popolari siciliane, vede in questa festa una funzione ludica – istruttiva: «Il primo novembre è la giornata in cui la società siciliana decide che occorre impartire ai bambini un’educazione finalizzata al rispetto dei propri morti. Educazione tesa anche all’esaltazione dell’identità familiare, anche se poi a portare i doni non è “il nonno defunto”, ma “i morti” in senso generico». Il valore educativo della festa consiste proprio nel rompere la soglia della paura col mondo dei morti e ciò mediante il dono: si spiega ai bambini che i morti li vogliono bene, tanto da portargli in dono quello che di più bello possono desiderare: giocattoli e dolci. In questo modo i genitori insegnano ai loro figli ad avere un rapporto tranquillo con la morte. La morte non deve far paura e il modo come esorcizzarla il siciliano lo trova andando al cimitero a visitare i propri cari defunti, non solo in segno di rispetto, ma di ringraziamento per i doni ricevuti.
Canestro con dolci e frutta Martorana
Nell'isola questa festa è vissuta in modo gioioso, dedicata soprattutto ai bambini e strettamente legata al valore simbolico del cibo. Esiste una relazione molto stretta tra i morti e il cibo. « La festa dei morti è una cena organizzata per le anime dei morti» spiega l’antropologo siciliano Antonino Buttitta (1933/2017) nel documentario “Il 2 Novembre: La festa dei morti in Sicilia” che spiega la festa dei defunti secondo la tradizione siciliana e il legame profondo con la terra e con il cibo, elementi di congiunzione tra il mondo trascendente e quello trascendentale.  Alla fine di ogni ciclo annuale che in agricoltura va da novembre a novembre, i morti ritornano. E ritornano con le stesse caratteristiche umane: amori odi o bisogni. E uno di questi bisogni è il cibo. Quindi i morti ritornano per mangiare. «Questa cena, questi dolci preparati per i morti in realtà poi – spiega Antonino Buttitta- si danno ai bambini. Facendo mangiare ai bambini “il cibo dei morti” ricostituisci la continuità tra la vita e la morte. I pupi rappresentano le anime dei morti (infatti si chiamano pupi a cena). I bambini mangiandole in realtà incorporano i morti e in questo modo li fanno rinascere».
Fonti: www.santiebeati.it; www.sicilyland.it; documentario “Il 2 Novembre: La festa dei morti in Sicilia”nato dall’idea di Fabrizia Lanza, regia Giacomo Costa, pubblicato nel 2017 su “La Torre del Gusto Channel”; blog: Il mio paese Barrafranca. articolo “La festa dei Morti: tra storia e tradizioni” di Rita Bevilacqua. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA 

domenica 13 ottobre 2019

"Quannu Annunziata veni di luni, si fa festa a Muntrauni"- sentenziava un antico detto barrese

Monte Navona visto dalla SP 15

I barresi, da buoni siciliani, motteggiavano su tutto. Alcuni detti traevano spunto da favole o leggende narrate per meravigliare e stupire grandi e piccini. Uno di questi detti trae spunto da una leggenda popolare che vede come protagonista Monte Navona, sito tra i paesi di Piazza Armerina e Barrafranca. Alto 754 metri,  appartiene alla catena dei Monte Erei, nella Sicilia centro-meridionale. 
“Quannu Annunziata veni di luni, si fa festa a Muntrauni”, sentenziava il detto. Si raccontava che quando la festa dell’Annunziata (ossia la festa dell'Annunciazione della Beata Vergine Maria, che la Chiesa festeggia il 25 marzo) coincide di lunedì, a Monte Navone si fa festa con una particolare fiera. In un passo del libro “Piccola Pretura” di Giuseppe Guido Loschiavo si legge che: «Al tempo dei Saraceni, sulla sommità del monte, c’era una città. Fu distrutta dalle guerre successive. Mia nonna mi raccontava che, dopo che la città era stata distrutta, un tale mastro Carretto, contadino di Piazza Armerina, andò a caccia sulla montagna, precisamente nella ricorrenza dell’Annunziata, si ridusse sul piano del monte. E quivi, era lunedì, trovò una ricchissima fiera di animali e merci. Volle acquistare qualche cosa da portare a casa come ricordo; però i venditori gli dissero che tutto quello che vedeva non si vendeva, si regalava. Volle, allora, mastro Carretto prendere qualche moneta d’oro da un banco di cambiavalute, e questi e gli altri venditori lo incoraggiarono a prendere quanto più potesse. Mastro Carretto si riempì le tasche dei pantaloni, della cacciatora, il fazzoletto, il berretto e lieto per l’avventura, che lo rendeva ricco, mosse per tornare a casa. Allora gli strani mercanti lo avvertirono che egli avrebbe potuto portare a casa indisturbato il tesoro purché non si fosse voltato indietro fino all'abbeveratoio dell’usignolo. Mastro Carretto rise, scrollò le spalle e si mise in cammino leggero leggero perché scendeva al piano e la via era comoda. Fatti pochi passi cominciò a sentire dentro di se rumori di catene, suoni di campanelli, voci di richiamo, grida di minacce, chiasso, scalpiccio di gente. Si mise a correre e il fracasso d’appresso. Sentiva una torma di gente alle calcagna come se volessero accopparlo. Resistette, resistette, finché, terrorizzato, a pochi metri dalla fonte si voltò indietro. Aveva Perduto! Dietro di lui non c’era nulla, però mani invisibili lo graffiarono, gli strapparono a bravi i vestiti e gli tolsero il denaro, lo percorsero, lo lasciarono privo di sensi sul luogo. Molte ore dopo alcuni viandanti lo trovarono ancora per terra e dalle ustioni che aveva nel corpo, convennero che i diavoli l’avevano conciato così». 
Monte Navona visto dalla SP 15
Altra variante è quella dal maestro barrese Sandro Messina, riportata in un suo manoscritto dal titolo “I disperati”:
«La notte dell'Annunziata, quando questa viene di lunedì, perché allora gli spiriti degli uomini là sepolti, si alzano e fanno la fiera. Difatti c'è un proverbio che dice:
"QUANNU ANNUNZIATA VENI DI LUNI SI FA FESTA A MUNTRAUNI"
Si racconta di un tale, un pastorello, che pernottò sul monte col suo gregge proprio la notte dell'Annunziata a sua insaputa, a mezzanotte si svegliò avendo sentito un gran fracasso: si accorse che tanta gente vendeva cose da mangiare. Avendo appetito, tirò dalla sua tasca quattro soldi e comprò alcune arance e un pezzo di pane. Appena si saziò, comprò altre arance di cui si riempì la "sacchina". Appena cominciò ad albeggiare, non vide più niente, tornò a casa e quando disse ai suoi fratelli:
- Vi ho portato delle belle arance di Montenavone! - questi risposero:
- Quanto mai Montenavone ha fatto arance! -
- Guardate, guardate! - diceva il pastorello, sicuro del fatto suo, e svuotava la "sacchina" guardando pure lui. Che cosa videro? Cosa incredibile per quei semplici pastori: le arance erano diventate marenghe d'oro del tesoro di Montenavone. Si parla pure di un contadino che, zappando, abbia trovato una giara piena di marenghi d'oro, e abbia riempito una bisaccia e portata a casa sul suo mulo. Si dice che avrebbe riferito alla moglie ciò, ma che, per la troppa gioia che ne provò tutto l'oro sia scomparso e si sia trasformato in gusci di lumache, per punizione per non avere saputo mantenere il segreto, secondo quanto gli aveva ordinato lo spirito che in sogno gli indicò il luogo del tesoro. Dato che le leggende sono molte, la gente parla dei diversi modi come impossessarsi del tesoro».
FONTI: Giuseppe Guido Loschiavo, Piccola Pretura, 1948; Sandro Messina, I disperati, Storie e leggende di Barrafranca negli anni '40 e '50. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA