mercoledì 9 maggio 2018

“Chi ti pozzano manciari li cani!” antica invettiva siciliana


Moneta di Adrano
Quante volte abbiamo sentito dire dalle persone più anziane “Chi ti pozzano manciari li cani!”. Ma cosa vuol dire?
Ci troviamo di fronte ad un'invettiva siciliana, rivolta contro un uomo considerato disonesto per augurargli di venire sbranato da cani inferociti. L'invettiva affonda le radici nel culto del dio Adranos. Come raccontano alcuni storici, sulle pendici dell’Etna nei pressi dell’odierna Paternò, sorgeva un tempio con all’interno una statua che raffigurava il Dio armato con una lancia, simbolo della potenza del vulcano. I greci associarono il Dio oltre che alla guerra, anche al fuoco, identificandolo con Efesto. Secondo lo storico Adolf Holm nella sua “ Storia della Sicilia nell'antichità” (1896-1901) furono attribuite ad una sola divinità notizie riguardanti due diverse divinità e, per questo motivo, Adranos riunì in sé sia il carattere di dio della guerra, indicato dalla lancia, che quello di dio del fuoco, proprio di Efesto. Al tempio del dio Adrano, situato nei pressi del laghetto Naftia, accorreva una gran folla di fedeli, proveniente da ogni parte dell’isola. Questo tempio era sorvegliato dai numerosi cani: i cani di “Adranos”. Di essi  parla il filosofo e scrittore latino (che però scriveva in lingua greca) Eliano, vissuto tra il 165/170 cca e il 235 a.C. In Sicilia esisteva un tempio dedicato al dio Adranos, custodito da “non meno di mille cani” (animali sacri al dio). Eliano, nella sua opera “ΠΕΡΙ ΖΏΩΝ ΙΔΙΟΤΗΤΟΣ” (tradotta in latino come “De Natura Animalium”), descrive in modo molto simile i cani di Adrano e quelli di Efesto.
Eliano così racconta: “Nella città di Aitna (Etna), in Sicilia, è oggetto di culto particolare un tempio dedicato ad Efesto. Qui si trovano un recinto, alberi sacri e un fuoco inestinguibile, mai spento. Intorno al tempio e al bosco ci son segugi sacri che accolgono festosamente e scodinzolando coloro che accedono al tempio e al bosco sacro con animo umile e aspetto rispettabile. Come se li conoscessero, essi si mostrano benigni nei loro confronti; se invece entra qualcuno empio e con le mani macchiate da azioni esecrabili, lo mordono e lo dilaniano; si limitano invece a scacciare e ad inseguire coloro che si siano contaminati con atti di libidine”.
Questi cani – che custodivano il fuoco – vengono però descritti da altri Autori come statue d’oro e non come animali in carne ed ossa.
La leggenda racconta che a custodire il tempio ci fossero numerosi cirnechi, cani da caccia tipici dell’Etna. La razza derivava dai cani dei faraoni egiziani, in particolare dallo sciacallo sacro al dio Anubis,  dio della mummificazione e dei cimiteri,  protettore delle necropoli e del mondo dei morti, rappresentato come un uomo dalla testa di canide.
Tornado ai cani di Aranos, questi cani erano così intelligenti da distinguere i buoni visitatori dai cattivi. Si mostravano accoglienti nei confronti dei fedeli accorsi al tempio con doni da offrire al dio, ma aggressivi e spietati nei confronti di chi si avvicinava al luogo di culto con l’intenzione di compiere razzie. Si avventavano contro gli spergiuri e i ladri intenzionati a fare bottino e li sbranavano senza pietà. In numerose monete di quel periodo, esposte nei musei in particolare in quello di Adrano, si vede sul recto la testa di un guerriero con elmo corinzio e cimiero e sul verso il cane cirneco.
Da ciò è nata l’espressione siciliana “chi ti pozzanu manciari li cani, (che ti possano mangiare i cani) come forma di imprecazione contro qualcuno che fa una cosa malvagia.
(Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA


lunedì 7 maggio 2018

La leggenda siciliana che vuole la LUNA figlia di una fornaia


foto dal web

Luna, lunedda,
lu pani a fedda a fedda
lu vinu a canatedda
quattro scocchi di zagareddi” (Barrafranca)
oppure:
Luna lunedda
fammi ‘na cudduredda
fammilla bedda granni
quanti l’amuri di San Giuvanni
recitano alcune filastrocche siciliane.
Nella prima di queste filastrocche si fa menzione del pane a fette; nella seconda si prega la luna di fare una ciambella o una focaccina (cudduredda). 
Perché la LUNA è invocata come colei che dà il pane?
Queste filastrocche hanno tutte un significato mitologico e si legano a una leggenda della tradizione popolare siciliana, anche se varia nella versione, che racconta la nascita della luna da una fornaia.  Non è casuale che la luna, assieme al vino, prodotti essenziali di nutrimento, debbano la loro origine alla luna, vista dai contadini come dispensatrice di provvidenza, ricchezza e felicità. Per gli antichi era la più grande divinità cosmica dopo il sole e fin dai primi popoli agricoltori fu oggetto di culti mitologici, e punto di riferimento per conoscere il tempo. Difatti, la luna è il simbolo dei ritmi biologici: cresce, decresce e scompare, e torna sempre a rinascere, riappare. Lei influenza la vegetazione, la nascita degli armenti, il lavoro dei campi: anticamente i contadini si attenevano alle diverse fasi della luna per scegliere il momento di arare, di seminare; insomma tutto ciò che riguardava la vita dell’uomo. Per questo motivo la luna è invocata da fanciulli e da adulti, da uomini e da donne.
foto dal web
Molte leggende sulla luna li ritroviamo raccolte negli scritti dell’antropologo Giuseppe Pitrè.
Ne riportiamo alcune. La luna, secondo la leggenda, era figlia di una fornaia: ed ha il viso mezzo imbrattato, perché una volta ebbe voglia di un cudduruni (focaccia) e lo chiese a sua madre; la quale preso lo spazzaforno (scupazzu) glielo diede sul muso (Riesi-CL). La luna, prima d'esser luna, era una ragazza molto vanitosa; e un giorno di estate, che faceva un caldo indiavolato, mentre la madre spazzava il forno, lei invece d'aiutarla in quella fatica, se ne stava allo specchio ad abbellirsi. La madre, indispettita di ciò, le diede un colpo di spazzaforno sulla sfaccia e la sporcò di nero (Naso- ME). Un’altra versione della  leggenda dice che la luna era sorella del sole, che questo se ne invaghì e la sedusse, e la madre, fornaia, saputo il fatto, le diede lo spazzaforno sulla faccia, condannando i due figliuoli ad errare perpetuamente per il cielo, rimanendo l'uno privo di moglie, l'altra priva di marito. Dice anche che per la vergogna di quello sbaglio, la luna si presenta una volta sola ogni mese in tutta la pienezza (Plenilunio), e che le rimase in cuore un odio implacabile per il fratello: ragione, questa, per la quale ogni volta che s'incontrano, s'aggrissanu,  succede l'ecclissi. Ed a provare di ciò, affermano i contadini, basta mettere in una catinella dell'acqua chiara alla finestra quando ha luogo l’incontro di giorno, e vi si vedrà il sole e la luna azzuffarsi di santa ragione. (Naso-ME)
(Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

martedì 1 maggio 2018

L’antica credenza popolare secondo cui San Filippo scatena i diavoli e Sant'Alessandro li riporta in catene

Un’antica credenza del popolo barrese vuole che 1° maggio San Filippo  scatena i diavoli, mentre il 3 maggio Sant'Alessandro li riporta in catene (il San Filippo per i barresi era san Filippo venerato ad Aidone).
Anticamente a Barrafranca (EN) questa credenza era molto diffusa tanto che, nei giorni che vanno dal primo al tre maggio, i fedeli barresi rimanevano in ritirato riserbo, in attesa che sant’Alessandro, riportasse i diavoli in catene. Addirittura i contadini mangiavano aglio crudo e recitavano formule deprecatorie, in attesa che il Santo papa riportasse l’ordine. Ciò trae origine dalla fervida devozione popolare verso i due Santi, entrambi festeggiati ai primi di maggio, san Filippo protettore degli infermi e sant’Alessandro, protettore dei campi e guaritore dei mali fisici. La lotta tra il bene e il male, tra il diavolo e Cristo, ha sempre scosso le coscienze popolari, ha sempre spaventato l’animo dei fedeli, che vedevano nei Santi i paladini del bene, chi, con la loro predicazione, avevano sconfitto il male. In realtà la spiegazione è molto più profonda e deriva da credenze e riti popolari siciliani antichi.

-San Filippo scatena i diavoli: questa credenza trae origine dalla leggenda che vuole un san Filippo (erroneamente per i barresi era san Filippo di Aidone) mandato in Sicilia per sconfiggere i demoni, ossia i pagani, che infestavano l’isola. Questi aveva il dono di curare gli indemoniati. In poche parole era un esorcista. Questo missionaro, dovendosi recare all’inferno per condurvi i demoni tra le fiamme, erano tutto annerito in faccia, come tanti “Cifiri” (luciferi). Quindi san Filippo, che forse più di tutti era annerito in viso a causa del suo intenso operare, scelse la località di Argirio (l’odierna Agira), dove vi era un tempio dedicato a Eracle e Iolao. Qui operò distruggendo il culto del semidio greco e convertendo molti pagani alla cristianità. La credenza popolare ha immaginato così che la predicazione del Santo irritasse i “diavoli”, scatenandoli. Parliamo quindi di San Filippo d'Agira.
Inoltre il popolo barrese  è stato da sempre molto devoto a san Filippo di Aidone, per la sua capacità taumaturgica nel guarire gli infermi e i malati cronici e mentali. Da qui la confusione dei due Santi, agevolata dall'omonimia dei nomi.
L’antropologo palermitano Giuseppe Pitrè racconta che il 1 maggio il vento di scirocco ed il turbine vengono scatenati dai diavoli  e investono tutto quanto incontrano. Per aria è un vero inferno, e il fischio ed il rumore che si sente è fischio e rumore di Diavoli che si agitano e sconvolgono gli elementi della natura. E ciò deriva dall' avversione che pei Diavoli hanno i Santi Filippo e Giacomo, la festa dei quali ricorre proprio in quel giorno (nell’antico calendario la festa cadeva il 1° maggio, poi passata all’11 maggio e con la riforma liturgica di Pio XII che al 1 maggio istituì la festa di San Giuseppe lavoratore, al 3 maggio). I contadini non appena si accorgono che il giorno piglia cattiva piega, si danno l’allarme con le parole: “Li Diavuli pri l’aria cci sù!” e corrono a premunirsi mangiando dell'aglio crudo. L'acutissimo odore di questo bulbo, spargendosi intorno, fa fuggire gli inquilini di casa.

-Sant'Alessandro mette in catene i diavoli. Il 3 maggio quel vento infernale che sconvolge la natura si acquieta. I diavoli scompaiono, i contadini barresi si tranquillizzano, perché in quel giorno essi festeggiano il loro Santo patrono. 
La grande devozione per sant'Alessandro ha spinto il popolo ha considerarlo loro protettore, non solo nel benedire i campi, ma nel riportare l’ordine naturale delle cose.
Antiche credenze quindi che derivano dal passaggio dalla religione pre-cristiana a quella cristiana, in cui i DIAVOLI rappresentavano i pagani che dovevano convertirsi alla nuova religione, stimolati dalla predicazione di san Filippo e riconcilianti dalla Chiesa, che i barresi vedevano nel loro Santo patrono, papa Alessandro I, divenuto poi sant’Alessandro, festeggiato il 3 maggio. Proprio in questo giorno, non solo a Barrafranca, ma in altre parti della Sicilia, si recita il rosario delle “Sante Croci”. Il nome deriva dall’antica festa, eliminata dopo il Concilio Vaticano II, dell’INVENZIONE DELLA CROCE, in cui si ricordava solennemente il ritrovamento (da invenio, termine latino) della Croce di Cristo fatto da Elena, madre di Costantino il Grande, ponendovi sopra le tre interrate e venute alla luce dopo profondi scavi sul Golgota un malato che sarebbe guarito al tocco di quella giusta. A Barrafranca questo rosario è conosciuto come il rosario “DU MILIUNI” da alcuni chiamato “MILLE”. Si trattava di una speciale preghiera di liberazione da recitare a guisa di coroncina, le cui avemaria erano costituite dalla parola "Gesù". Tale parola si doveva ripetere per un totale di 1000 volte, da qui il nome della pratica.Veniva recitato proprio il 3 maggio perché secondo un’antica credenza siciliana questo giorno era ritenuto nefasto e quindi bisognava ricorrere alla fede per tenere lontano le insidie degli spiriti malefici che si aggiravano nell'aria. 
Antiche credenze che derivano dal passaggio dalla religione pre-cristiana a quella cristiana, in cui i DIAVOLI rappresentavano i pagani che dovevano convertirsi alla nuova religione, stimolati dalla predicazione di San Filippo e riconcilianti dalla Chiesa, rappresentata dal papa Alessandro I divenuto poi San Alessandro. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA

domenica 29 aprile 2018

Antico santino di Sant’Alessandro, patrono di Barrafranca

Il 03 maggio Barrafranca (EN) festeggia il suo patrono Sant'Alessandro. Si dice che Alessandro fu papa dal 105-115 e martire il 3 maggio 115. In realtà si tratta di due personaggi distinti. Nel medioevo, i due personaggi divennero uno: Sant'Alessandro “papa” e “martire”. Erroneamente il Liber pontificalis lo dice martire al tempo di Traiano, confondendolo però con un altro Alessandro. Nel 1855 si scoprì al VII miglio della via Nomentana un cimitero e un complesso basilicale con due tombe venerate. Sulla prima era stato eretto un altare con l’iscrizione: ... ET ALEXANDRO DELICATVS VOTO POSVIT DEDICANTE AEPISCOPO VRS. L'Ursus fu identificato dal Duchesne con il vescovo di Nomentum di tal nome ricordato in una lettera del papa Innocenzo I (401-417). L'iscrizione è, dunque, dell'inizio del V secolo e dimostra che Alexander è nominato per ultimo, senza alcuna dignità gerarchica, rafforzando i dubbi espressi dal Duchesne il quale negava l'identità tra il martire e il papa, affermando che la confusione fra i due personaggi risalirebbe agli inizi del VI secolo, data di compilazione del Liber Pontificalis. Anche sant'Ireneo di Lione non faceva alcuna menzione di un suo martirio. L’errore è corretto nella riforma del calendario liturgico. In chiesa sono conservate alcune reliquie di Sant'Alessandro: in un ostensorio d’argento  alcune parti del femore, in un reliquiario a forma di mano (in atto di benedire) più l’avambraccio parti delle ossa dell’avambraccio e in una scatolina di legno rivestita di carta colorata altre reliquie non identificate (nella parte posteriore della scatola è impressa la scritta “Alessandro Romano”).
Per l’occasione, pubblichiamo la foto di un antico santino, che i più anziani ricorderanno, di cui una copia è conservata nella sagrestia della chiesa Maria SS. della Stella di Barrafranca (EN). Nella foto accanto sono messi a confronto l'antico santino raffigurante la vecchia statua e l'attuale santino con la nuova statua. L'antico santino raffigura l’antica statua, di gesso e legno, di Sant'Alessandro che veniva portata in processione fino al 1935, anno in cui, a causa di violente liti scoppiate durante la processione (allora la festa del Santo patrono era molto movimentata) ruzzolò a terra e si ruppe. Il Santo è raffigurato accanto ad un giovanetto, san Teodulo, suo compagno di martirio, anche se per la tradizione popolare era san Cirino martire. 
Attuale statua di sant'Alessandro 
La statua era pesantissima e di un colore lucido tanto che, come scrive Giuseppe Salamone nel suo diario (Quaderno di Giuseppe Salamone di Barrafranca, Codice o Catechismo Regolamento famigliare Salomoniesco, Penitenziario di Volterra) “… col sole sembra di sudare. Allora i paesani gridano con quanto fiato in corpo: Viva Santruscianniru chi suda ppi  fari u miraculu…”.  La nuova e attuale statua che sostituì quella rotta, è scolpita in legno risalente probabilmente al 1935. Questa riproduce il Santo in vesti papali con “Tiara” e “Ferula”, sempre seduto sulla sedia “gestatoria” e in atto di benedire. Il volto è molto più sereno e amorevole della statua precedente, con la mano destra alzata in atto di benedire il suo popolo. Manca la statuetta del giovanetto, mentre il reliquario è aggiunto solo durante la processione. Ultimo restauro, come attesta una targhetta posta sulla statua, risale all'aprile 2002 a cura di don Giuseppe Bonfirraro, Gaetano Vicari e Gaetano Orofino. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

domenica 15 aprile 2018

FIDES e SPES: i due affreschi di donna presenti nell'abside dell’altare della chiesa Maria SS. della Stella

Gli affreschi di FIDES  e SPES chiesa Maria SS. della Stella
Entrare in chiesa, girarsi intorno e ammirare tutti gli stupendi stucchi del Signorelli prima e del Musolino dopo, ammirarne lo stilo “classico”, soffermare lo sguardo sul tempietto dell’altare maggiore che contiene la tela della compatrona Maria SS della Stella, opera del nostro concittadino e stimato pittore prof. Gaetano Vicari, e accorgersi che lì, in un angolo al buio dell’abside s’intravedono maestosi due enormi affreschi. Stiamo parlando di SPES e FIDES i due affreschi di donna dipinti sulle pareti dell'abside dell’altare maggiore della chiesa Maria SS. della Stella di Barrafranca (EN).
FIDES
Dalla “Guida alle principali chiese di Barrafranca” di Gaetano Vicari apprendiamo che i due affreschi furono resi visibili nel 1998. Non sappiamo se gli affreschi fanno parte di tutta una serie che ricopriva la chiesa o solo l'abside. Si disconosce anche la data di esecuzione: non sappiamo se risalgono a prima del terremoto del 1693 che distrusse parte della chiesa, da cui si sarebbe salvata forse parte della chiesa compresa l’abside, oppure dopo la ricostruzione del 1699. Al momento non ci sono documenti che attestino la presenza di affreschi. Unica certezza che furono definitivamente ricoperti dagli stucchi del Signorelli nel 1858 e resi visibili nel 1998. 
Approfondendo l’argomento con l’autore della “Guida alle chiese di Barrafranca” abbiamo saputo che grazie all'interessamento del Vicari, don Giuseppe Bonfirraro, allora parroco della chiesa, decise di togliere gli enormi teli che coprivano i lati del tempietto, rendendo visibili al pubblico i due affreschi. Inoltre sopra il suddetto tempietto neoclassico a sei colonne corinzie sono sedute due enormi statue di stucco raffiguranti la Speranza e la Fede, a richiamo degli affreschi presenti nell'abside.
SPES
Le figure, raffiguranti due delle tre virtù teologali Fede, Speranza e Carità, sono due figure di donne, con abiti ampi e lunghi. SPES porta sotto i piedi l'ancora, simbolo di salvezza e speranza per chi crede. FIDES reca in una mano il calice e la croce, simboli di Cristo fatto uomo (morto in croce e il calice che notoriamente contiene il corpo e il sangue di Cristo. Sulla testa reca la "mitra" tipico copricapo papale (il papa simboleggia Cristo sulla terra) per evidenziare che la fede porta a Cristo. Essi sono arricchiti con decori vari, come fregi e arabeschi. I colori sono forti, vivaci. “Questi affreschi dalla narrazione ampia e solenne, - ci spiega Vicari- testimoniano la validità e la perizia dell’autore che sa rappresentare le Virtù Teologali, con una monumentalità, che deriva dal plasticismo rinascimentale, semplificata da un’esecuzione pittorica piena di freschezza. Peccato che l’intonaco è in molte parti staccato e il colore di conseguenza perduto!”A onor di cronaca, anche nell'abside della chiesa Maria SS. dell'Itria di Barrafranca troviamo due enormi statue di donne raffiguranti la Fede e la Speranza.
Non è raro trovare raffigurate negli absidi delle chiese le tre Virtù Teologali, o sormontare le facciate delle chiese. In origine nell'arte le  tre virtù teologali  assumevano caratteristiche simili alle tre grazie, in quanto agiscono insieme per la felicità dell’uomo che si pone al di là della giornata terrena. Sono sempre rappresentate come giovani e avvenenti figure femminili. La Fede è rappresentata con gli attributi del calice e della Croce. La Carità molto spesso è rappresentata come una giovane che allatta, mentre la Speranza reca l’attributo di un un’ancora. 

(Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA

Tempietto dell'abside della chiesa Maria SS. della Stella

Particolare affresco FIDES

Particolare affresco SPES

sabato 14 aprile 2018

IN NOME DELLA LEGGE: il film di Pietro Germi tratto dal romanzo PICCOLA PRETURA

Foto locandina del film
Sempre attuale, anche se sono passati quasi settantanni (1949) dalla prima uscita, la pellicola cinematografica "In nome della Legge" (1949) di Pietro Germi, tratto dal romanzo "Piccola Pretura" di Giuseppe Guido Lo Schiavo. Il romanzo, pubblicato nel 1948 dall'editore Colombo di Roma, parla di eventi successi a Barrafranca (EN) negli anni in cui Lo Schiavo fu Pretore di Mandamento nella piccola Pretura del paese da settembre 1921 a luglio 1922. Il film è del regista Pietro Germi, distribuito da LUX FILM, girato a Sciacca (AG) e proiettato nelle sale italiane nel marzo del 1949. 
Trama: Un giovane magistrato è inviato come pretore in un paese nel centro della Sicilia. Vi giunge animato dai migliori propositi: farà il suo dovere ad ogni costo combattendo la mafia imperante. In paese è accolto con diffidenza, con ostilità: l'unico a dimostrargli simpatia è un giovanotto di nome Paolino. L'indomani del suo arrivo, il pretore deve occuparsi di un omicidio; ma l'inchiesta è difficile, perché tutti sono legati dall'omertà e nessuno vuol parlare. Una parte della popolazione è disoccupata, in seguito alla chiusura di una zolfara. Il pretore cerca di risolvere il problema, inducendo il barone Lo Verso, che amministra la zolfara, a riaprirla, uniformandosi così alla legge. Questo terzo lungometraggio di Germini fu giudicato da molti il primo vero western italiano, oltre ad essere il primo film italiano che parla di mafia. Molti critici hanno riconosciuto al film il merito di aver mostrare già, oltre alla collaborazione fra mafia protettrice e potere economico protetto, il rapporto - o legame - d'interessi fra quest'ultimo (aristocratici, proprietari terrieri o, nello specifico, minerari, notabili del paese) e il potere politico (Palermo e "santi in paradiso" a Roma) e persino la magistratura (procura di Palermo).

Copertina del manoscritto (foto web)
“PICCOLA PRETURA. OLTRE IL VARCO C'È IL PAESE” è un romanzo scritto da Giuseppe Guido Lo Schiavo a Roma tra il 10 dicembre 1946 e il 18 febbraio 1947. Fu pubblicato nel 1948 dall'editore Colombo di Roma. Ebbe immediato successo: una seconda edizione fu pubblicata già nello stesso anno. Una terza e una quarta edizione nel 1949, anche sull'onda del film di Germi “In nome della legge” tratto dal libro (tra gli sceneggiatori anche Fellini, Monicelli e Pinelli). Nel 1950 le edizioni stampate dall'editore Colombo erano già sette. Il romanzo era stato scritto in sette quaderni dalla copertina rosa (dimensioni 20x28 cm) di 88 pagine l'uno. Sulla copertina del primo quaderno il titolo manoscritto “Piccola Pretura. Oltre il varco c'è il paese”. – Scrittura ad inchiostro, calligrafia ben leggibile, con correzioni, biffature, aggiunte (a volte con inchiostro rosso). All'inizio del primo quaderno è applicata una carta trasparente con il disegno a china raffigurante con una veduta a volo d'uccello i luoghi di svolgimento del romanzo, nella realtà il centro di Barrafranca, con pretura, chiesa, Municipio, barbiere, Poste, ecc. – 
Copertina del romanzo 
A pag. 1 il distico: “I fatti e i personaggi di questo libro sono del tutto immaginari e, pertanto, qualunque riferimento ad avvenimenti o a persone reali sarebbe infondato”. Data: Roma 10 dicembre 1946 / 18 febbraio 1947. E la sigla di Lo Schiavo. Il quaderno 7, infine, contiene un elenco dei personaggi di Piccola Pretura: Autorità Giudiziaria, Polizia, il Dottore, il Barone, don Fifì, don Peppino Cilombo, massaro Turi Passalacqua, il Sindaco, il Parroco, ecc. Alla fine del quaderno, spillati, due cartoline e una lettera indirizzate a Lo Schiavo (grafia usata anche Lo Schiavo), e due cartoline illustrate degli altari della chiesa di Barrafranca. Argomento sono quindi le vicende che si svolgono in una piccola Pretura, in cui l’autore svolse il suo mandato da settembre 1921 a luglio 1922.  Questa Pretura si trovava nel paese di Barrafranca (EN) dove Lo Schiavo. Dell’antica pretura rimane un balcone con uno stemma comunale in via Vasapolli, vicino angolo via Roma La casa in cui abitava Lo Schiavo si trovava in Via Umberto e, secondo alcune indiscrezioni, doveva essere l’abitazione della famiglia Giarrizzo. Il manoscritto originario è stato acquistato da un barrese che ha mantenuto l’anonimato. Si aspetta di conoscere il suo nome. (Foto e materiale sono soggetti a copyright)

RITA BEVILACQUA


martedì 3 aprile 2018

Riproduzione artistica della statua dell'apostolo SANT'ANDREA




S. Andrea
Dopo alcuni anni e diverse vicissitudini, ritorna a far parte dei Santoni della “Giunta” di Pasqua, che ogni anno si svolge a Barrafranca (EN), una riproduzione del Santone o meglio dell’Apustulu Sant’Andrea. Per alcuni anni l’antico Santone non è andato in processione, per cui la Proloco locale e l’Associazione “Pro Pasqua” di Barrafranca, nella persona del presidente Francesco Cannata, hanno manifestato il disagio sociale della mancanza numerica degli apostoli. Da qui la necessità di riprodurre un nuovo Sant’Andrea che diventasse, così, elemento definitivo delle future festività pasquali. 
Sono stati i  fratelli Cateno e Aldo Ferreri ad occuparsi della costruzione del nuovo Santone, ai fini di perseverare la continuità della tradizione di famiglia: ricordiamo che Sant'Andrea è stato da sempre proprietà della famiglia Ferreri.
"Vestizione" con Tiziana Strazzanti in Ferreri e Francesco Cannata
Così tempestivamente si sono prodigati a incaricare un artista altezza della situazione. La scelta è ricaduta nella persona del Maestro d’Arte Mario Termine di Enna, rinomato scultore. Dopo aver esaminato l’antico Santone, in possesso di alcuni membri della famiglia Ferreri, il Maestro Termini ha realizzazione un prototipo, conservato gelosamente nel suo laboratorio. Successivamente, mediante la tecnica del doppio stampo, è stato creato uno stampo in terracotta,  per poi eseguire il tutto in resina, rifinita nei minimi particolari e completata con i dovuti colori e sfumature. Lo stampo in terracotta è custodito dalla stessa famiglia. Il maestro Termini, oltre a rifarsi all'iconografia del vecchio Apostolo, si è molto ispirato ai lineamenti somatici della famiglia Ferreri, lasciando spazio anche alla propria vena artistica. Dopo la realizzazione della testa (alta 90 cm) e delle mani (ispirate alle mani di Cateno Ferreri), si è provveduto alla realizzazione delle altre parti: l’intelaiatura chiamata siggitedda è stata realizzata in ferro tubolare leggero da Salvatore Giacobbe; la tunica è stata cucita da Tiziana Strazzanti in Ferreri; il colletto a bavero e i polsini in pizzo da Marianna Stelletta; la fascia recante il nome è stata ricamata da Veronica Giuliana e la scocca che viene appesa alla tunica è stata realizzata da Catia Reda. Quando tutto era pronto, la famiglia Ferreri ha vestito ossia montato e preparato per la festa il nuovo Sant’Andrea, aiutata da Francesco Cannata, che ormai da decenni si occupa della preparazione degli Apostoli.
La presentazione ufficiale è avvenuta domenica 25 marzo 2018 nella chiesa di San Francesco a Barrafranca (EN). Alla presenza del sindaco di Barrafranca Fabio Accardi, del presidente dell’Ass. Pro Pasqua Francesco Cannata, dei proprietari degli altri Apustuli, e della famiglia Ferreri, la nuova riproduzione artistica di Sant'Andrea è stata svelata e benedetta da don Giacomo Zangara, entrando così ufficialmente nella cerchia dei dodici Santoni processionali di Barrafranca.
Cateno e Aldo Ferreri con il maestro Mario Termini
- MARIO TERMINI nasce ad Asmara (Eritrea) nel 1943. Nel 1963 ha conseguito il diploma di Maestro d'Arte presso l'Istituto d'arte di Palermo.  Abilitato all’insegnamento del disegno dal 1964, ha insegnato in vari istituti della provincia di Enna.  Dal 1964 a oggi ha partecipato a numerose collettive. Tante le opere realizzate dal Maestro Termini: 1979 Monumento funebre a Enna; 1981 La piccola Demetra Enna; 1983 Monumento dedicato alla Famiglia a Enna; 1986 Madonna dell'autostrada - Termini – Marzilla; 1989 Centro fontana "le Tre Sirenette" - Enna; 1991 Il sarcofago presso il cimitero di Enna; 1992 - Pannello decorativo, cappella privata Enna; 1999 Pannello decorativo cappella privata Enna; 2003 Ambone in bronzo per la chiesa di S.Tommaso Enna; 2005 scultura in bronzo dedicata al Giudice Livatino palazzo di giustizia Enna; 2009 Campana per la chiesa di S: Maria degli Angeli Enna; 2009 S.Maria degli angeli scultura in resina e polvere di Marmo; 2010 Direttore Artistico ed Ideatore del I°simposio internazionale di scultura Federico II “Stupor Mundi”; 2010 S. Lucia per la casa di riposo di S.Lucia Principi di Piemonte Enna; 2011 Direttore Artistico ed Ideatore del II° simposio “20 Sculture per i venti comuni di Enna in occasione Del 150° Anniversario dell’unità d’Italia; 2012  3° Simposio Internazionale di scultura  “Le tre Marie “ tre sculture di 12 mt per tre coppie di scultori eseguiti presso una vecchia cava di arenaria in 45 giorni,in alto rilievo (in fase di progettazione)
La GIUNTA di Pasqua 2018
- Riguardo ai dodici apostoli dobbiamo fare una precisazione: nel vangelo di Matteo (10,1) apprendiamo che i dodici apostoli sono: Simone e il fratello Andrea, Giacomo di Zabedèo (detto il Maggiore) e suo fratello Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Matteo detto Levi, poiché pubblicano, Giacomo di Alfeo (detto il Minore), Giuda detto Taddeo (che significa magnanimo), Simone il Cananeo o Zelota, Giuda Iscariota. Fino agli anni ’70, a Barrafranca le statue degli apostoli erano 10, solo in seguito furono aggiunti San Taddeo e San Filippo, realizzati dal maestro Gaetano Orofino. Tra questi “Apustuli” è presente San Mattia, che fu scelto dagli altri Apostoli a sostituire Giuda Iscariota, mentre manca San Giacomo di Alfeo, detto il Minore e al suo posto troviamo San Paolo, che come tutti sanno non era un apostolo di Gesù, ma un grande predicatore e padre della chiesa. 
(Foto e materiale sono soggetti a copyright) 

RITA BEVILACQUA